Sembra essere diventato un mantra degli ultimi tempi l’impossibilità di creare un buon adattamento audiovisivo live action partendo dai videogiochi. La componente interattiva, ed appunto, ludica del medium rende complesso trasporne la narrazione con altrettanta efficacia, a meno di operare delle modifiche. Scelta che, in maniera saggia e coraggiosa, The Last of Us compie. Per chi temesse di trovare spoiler, sappia che può dormire sonni tranquilli: le prime due parti dell’articolo ne saranno prive.

“Parte I”: il 1968, Romero e gli zombie di una volta

Già in passato si è discusso su questi lidi di come l’approccio ad un prodotto con soggetto non originale, quindi un adattamento, richieda di separare il giudizio sulla qualità effettiva di ciò che si sta fruendo da come i due prodotti si relazionino fra loro in termini di differenze o stravolgimenti. Particolare enfasi era stata posta su questo aspetto trattando sia Gli Anelli del Potere che House of the Dragon.

Ignorando quindi le origini del prodotto, The Last of Us ha delle premesse da classico prodotto a tema zombie, con tanto di scena iniziale che per dialoghi e regia, richiama all’incipit di molti film a tema degli anni ’70 e ’80.

La citazione è talmente tanto evidente che la prima cosa mostrata a schermo è un numero: 1968. Un anno assolutamente non casuale per il cinema, vista la pubblicazione di ben tre film rivoluzionari negli Stati Uniti; quello di interesse in questo caso fu un film indipendente, a basso budget, in bianco e nero e diretto da un giovanissimo e sconosciuto George Romero: La notte dei morti viventi. Questa pellicola segna la nascita dello zombie moderno, rimasto peraltro privo di copyright a causa di un errore di registrazione. L’aspetto del film ancora affascinante ad oltre cinquant’anni di distanza è come i morti viventi siano un pretesto narrativo per muovere i personaggi, approfondirli e farli agire; in una parola: un MacGuffin. Non ha importanza la ragione per cui i morti si risveglino, la ha l’effetto che questi producono sugli esseri umani, con il finale del film che veicola una potentissima critica sociale ed un disilluso messaggio antirazzista.

Allo stesso modo, non ha importanza quale sia la causa dell’evoluzione del Cordyceps, suggerita proprio nella suddetta scena, ma di rilevanza nulla, quanto l’effetto che l’infezione ha sull’umanità. Gli infetti in The Last of Us sono poco più che una presenza sullo sfondo della vicenda, dove di tanto in tanto intervengono quale elemento caotico ed imprevisto atto, ancora una volta, a smuovere la narrazione o spingere le azioni dei personaggi. Avrebbero potuto essere morti viventi, umani mutati da una guerra nucleare o scimmie provenienti da una realtà alternativa, il ruolo che svolgono è lo stesso.

La serie, pertanto, sovverte quello che negli anni è diventato lo stereotipo narrativo del suo sottogenere, nello specifico comprendere le cause che hanno portato al disastro e trovare una cura e/o porvi rimedio, ritornando alle origini dello stesso.

Il viaggio di Ellie e Joel non è una marcia disperata fra orde di infetti per eliminare quella piaga dalla faccia della Terra, ma il percorso di crescita di due persone in un mondo annichilito da qualcosa di invincibile, dove il reale pericolo sono in realtà gli esseri umani stessi. The Last of Us punta, in sintesi, sui personaggi.

Sono loro il cuore pulsante e principale pregio della serie, in grado di far passare in secondo piano anche l’ottimo livello tecnico globale, con la sola eccezione degli straordinari costumi, trucchi ed effetti prostetici dei Clicker, una scelta ancora una volta retrò ma che paga immensamente in termini di qualità.

Ciò che brilla più di ogni cosa però sono Bella Ramsey e Pedro Pascal, con una recitazione di livello ed un’alchimia che rende impossibile non empatizzare con loro e soffrire delle loro scelte. Il percorso spiraleggiante della loro scrittura li porta a dover affrontare i propri traumi, senza la necessità di ricorrere al classico “viaggio dell’eroe”, ma anzi tirando all’estremo limite la corda della moralità in favore della sopravvivenza. Il salto generazionale che li separa è anche quello che separa il mondo dalla sua distruzione, quei fatidici 20 anni passati dall’inizio del disastro, ma è anche il salto che separa i loro caratteri, all’inizio in perenne conflitto per poi scoprirsi molto più simili di quanto non pensassero.

The Last of Us - serie tv

Ritornando agli archetipi narrativi, qui si è nel pieno regno dei road movie post-apocalittici, da cui la serie pesca a pieno per la sua costruzione. Questo rende anche immediato comprendere come il viaggio conti molto più della destinazione, ma anche come l’intersezione con i viaggi di altri individui possa portare agli esiti più impensabili.

L’elemento forse più innovativo in questo senso è la capacità degli sceneggiatori di spostare il punto di vista, narrando di personaggi in apparenza scollegati dal percorso principale, ma riuscendo in brevissimi tempi a renderli parte integrante dell’esperienza e compagni del viaggio collettivo che l’umanità affronta mentre cerca di sopravvivere.

Ed è proprio questo uno degli elementi di The Last of Us che più si allontana, ma in meglio, dal videogioco originale. 

“Parte II”: il 2013, Naughty Dog e le opportune modifiche

Già nell’anno della sua pubblicazione, il 2013, The Last of Us fu accolto da un enorme consenso di critica e pubblico, consenso poi aumentato nel corso degli anni. Non è intenzione di chi vi scrive stilare una cronistoria di premi, DLC, remake e sequel del titolo, quanto notare come i cambiamenti che la serie opera siano razionali e dovuti alla differenza tra i medium in questione.

La rimozione della componente interattiva nel passaggio da videogioco a serie tv si è tradotta in un lato nella perdita della componente action, utilizzando di conseguenza gli infetti più come un sopracitato MacGuffin che come elemento principale della narrazione. Questa perdita è però risultata nel principale pregio della serie, così come lo sono i cambiamenti nei punti di vista messi a schermo, capaci di approfondire alcuni personaggi ancora più che nel videogioco prodotto da Naughty Dog.

Altre differenze sono invece di natura più pratica; ad esempio, nel videogioco i funghi emettono spore che costringono i personaggi ad indossare delle opportune maschere filtranti in alcune zone. Nella serie, tale elemento è del tutto rimosso, sostituito invece da un sistema di radici che può polarizzare le azioni degli infetti se turbato. È affascinante come entrambi gli elementi siano non solo coerenti con le caratteristiche di alcuni funghi realmente esistenti, ma perfetti per il loro medium. Nel videogioco indossare la maschera è un elemento di gameplay che può portare ad un game over; nella serie si preferisce lasciare scoperti i volti degli attori, all’ovvio scopo di migliorare l’empatia dello spettatore nei loro confronti e non coprirne l’espressività, ma il poter calpestare inavvertitamente delle radici, dando il via ad un inseguimento da parte di decine se non centinaia di infetti, è un elemento che tiene costantemente in ansia i fruitori.

Sono solo gli esempi più lampanti di una serie di piccole e grandi differenze, per cui si lascerà al pensiero induttivo, più che ad una lunghissima lista, il compito di comprendere perché tali cambiamenti siano necessari e come cooperino al raggiungimento di un solo scopo: adattare la storia di The Last of Us da videogioco a serie TV. E questo indipendentemente dall’avere come showrunner Neil Druckmann, direttore e sceneggiatore anche del videogioco.

“Parte III”: il 2023, Druckmann e qualche spoiler

Visto che gli spoiler mietono più vittime del Re dei Ratti (chi sa sa) avviso chi non ha fruito della serie che questo è il momento giusto per fuggire via. Tuttavia, chi ne ha fruito ma non conosce gli eventi di The Last of Us Parte II è comunque salvo.

Le regole del bravo recensore potrebbero affermare che non è necessario scendere negli spoiler per riuscire nel proprio compito. Tuttavia, qui l’intenzione di farlo è deliberata e consapevole che questa sezione non è che un corollario alla prima, di per se sufficiente a consigliare la serie e metterne in luce i numerosi pregi.

The Last of Us - serie tv

Quindi si apra l’angolo della polemica. La serie è stata vittima di review bombing nei confronti degli episodi 3 e 7, per via delle storie di omosessualità ivi raccontate. Incredibile ma vero, questa componente non è né fondamentale nella serie, né funge da motore narrativo per le azioni di qualunque personaggio. La componente omoerotica è normalizzata, non risultando un fenomeno su cui porre l’accento, ma una naturale declinazione dell’amore.

Bill e Frank vivono una storia tragica in un mondo in rovina, una storia di due anime che si scoprono affini e decidono di vivere e morire assieme, felici di tutte le loro scelte. Non c’è feticizzazione del loro rapporto, complice anche la scelta degli attori. Se si provasse a pensare alla sequenza di eventi della loro storia, si scoprirebbe infatti come gli eventi messi in scena avrebbero funzionato con qualunque altra coppia.

Analogamente la cosa funziona per Ellie nell’episodio 7, dove quel che realmente importa è l’effetto che avrà su Ellie il dover perdere la persona di cui si era innamorata. Basterebbe anche solo la scena della vetrina del negozio di intimo a comprendere come il focus sia la scoperta di Ellie di un piccolo lato di se stessa, in un mondo dove volersi vedere più belli è qualcosa di ormai alieno.

Quella scena e il dialogo con Joel nel finale (“It wasn’t time that did it”) sono i due momenti dove lo sguardo di Ellie è più potente che mai, in grado di commuovere ed esprimere uno spettro complesso ed ampissimo di emozioni, i punti focali della sua crescita come persona. Entrambe le scene sono dolcissime nella loro innocenza e nel loro comunicare per sottrazione, senza le parole ma solo con gli sguardi, ed entrambe sono posizionate prima di un disastro: la morte di Riley per il morso dell’infetto e quindi per mano della stessa Ellie (morte peraltro mai mostrata esplicitamente, scelta che ho amato) e la strage nell’ospedale ad opera di Joel.

Sono due momenti paralleli, quindi quanto è intelligente dare un giudizio negativo ad uno di questi solo per via del genere della persona amata da Ellie?

Credo sia inutile commentare oltre il finale, che pur essendo uno degli episodi più brevi è praticamente un continuo climax di tensione ed emozioni.

The Last of Us: epilogo

Per i coraggiosi che fossero arrivati in fondo o che fossero arrivati qui saltando l’angolo dello spoiler polemico, sappiano che questa serie è realmente un gioiello, un adattamento riuscito da ogni punto di vista ma anche una serie tv altrettanto riuscita anche se considerata in sé. Quindi che dire, si attende con ansia la seconda stagione.

The Last of Us

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Milano, 16 gennaio 2024. Alla 75esima cerimonia di consegna degli Emmy®, i prestigiosissimi premi alle eccellenze dell’industria televisiva americana, trasmessa in diretta su Sky Atlantic e da stasera disponibile on demand su Sky e in streaming su NOW, fra le serie più nominate anche la serie Sky Exclusive The Last of Us.

THE LAST OF US ha fatto incetta di premi il 6 gennaio ai Creative Arts Emmy Awards, ottenendo ben 8 riconoscimenti: per i due guest del cast Storm Reid e Nick Offerman, per il picture editing, per il design del logo, per make-up, sound editing, sound mixing ed effetti speciali. Già apprezzatissima dalla critica internazionale e italiana, la serie TV basata sull’omonimo videogioco sviluppato da Naughty Dog per le piattaforme PlayStation® racconta una storia di sopravvivenza che si svolge vent’anni dopo la distruzione della civiltà moderna. Con 24 nomination agli Emmy di quest’anno, era la seconda serie più nominata, subito alle spalle di Succession.

Video e foto dall’Ufficio stampa Sky. Aggiornamento del 16 gennaio 2024 per gli Emmy.

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