La mia scelta di parlare di Simoun (2006) non dipende dal fatto che io lo ritenga uno degli anime più belli all’alba del Terzo Millennio, ma perché l’invisibilità cui è stato condannato va in qualche modo emendata. La parabola toccata a questa magistrale produzione (gli episodi sono 26) è da manuale: alla raffinatezza assoluta di soggetto e sceneggiatura non ha fatto riscontro il consenso di pubblico che ci si attendeva, evidenza su cui si è scatenata la speculazione degli addetti ai lavori.
Il punto di forza di questo anime è infatti paradossalmente anche il suo punto critico, la sua maggior debolezza: oggettivamente Simoun non risponde a un preciso genere di riferimento e il pubblico ne sarebbe rimasto spiazzato. Non si tratta di uno yuri in senso tradizionale, né possiamo ascriverlo a una saga fantasy o distopica tout court. Vi si respira un’atmosfera da fantascienza quasi classica a tratti, spesso si avverte aria da slice of life, considerato lo spiccare dell’elemento sentimentale; appariscente è inoltre, nelle frequenti battaglie, la componente bellico-militare, non tanto di sfondo come parrebbe, visto che il titolo stesso dell’anime si riferisce ai “carri di Dio”, i Simoun appunto, apparecchi che consentono alle Sybille protagoniste di pregare volando e, già che ci siamo, di sublimare le loro coreografiche preghiere visuali in non convenzionali armi di distruzione di massa.
La mescolanza fluida dei generi conduce a singolari innesti creativi: per far volare i Simoun, per esempio, si ricorre al bacio saffico scambiato tra le coppie di piloti, rigorosamente tutti femmina, ça va sans dire, per cui se di un simile capolavoro nell’immaginario collettivo si è imposta soprattutto l’anima yuri, una motivazione c’è. Che gli amanti dello yuri trovino qui colori per le loro tavolozze è del resto fuori discussione: amori ricambiati, amori non ricambiati, relativi tentativi di violenza sessuale, che effettivamente, consumati tra ragazze, amplificano la loro cupa risonanza emotiva, fino all’acme – nello yuri corale ormai quasi inevitabile – raggiunto dallo stereotipo melodrammatico-incestuoso della seduzione tra sorelle (ma qui, più che al politicamente corretto Citrus, siamo semmai vicini a Candy Boy: le sorelle sono sorelle autentiche).
Tuttavia, benché lo yuri sia vistoso, per cogliere davvero nel segno, e comprendere dunque un anime tanto filosofico ed evocativo, è forse consigliabile lasciarsi guidare nell’interpretazione da una lettura gender fluid.
La domanda rituale – aggettivo qui non scomodato a caso viste le tante sacerdotesse coinvolte – sarebbe a questo punto: ha senso riassumere Simoun?
No, se la forma in arte ha un minimo significato, determinando la differenza.
Per afferrare infatti la forza di questa narrazione, a poco serve vivisezionarne il plot, nonostante sia ricchissimo d’accidenti. Perché la potenza di Simoun sta nella sua visione allegorica, una visione delle cose assolutamente inedita e provocatoria. E questa sì, vale la pena descriverla brevemente, fosse solo per la sua inquietante connotazione etico-politica.
Nel mondo di Simoun la legge genetica dell’XX fondativo, valida in principio per tutti gli esseri umani, è sacra quasi più delle sue Sybille: si nasce tutti femmina, per indugiare poi in una fase di latenza – latenza o transizione, comunque decisamente sbilanciata verso il femminile – fino alla fine dell’adolescenza, quando si sceglierà se diventare definitivamente uomo o donna, con conseguente mutamento progressivo dei caratteri sessuali di partenza.
Anche i personaggi maschili della serie sono stati quindi cromosomicamente segnati dalla doppia X, vivendo in pratica in un corpo femminile dall’infanzia all’adolescenza, e se lo ricordano fin troppo bene: del resto, a contraddistinguerli universalmente a riguardo, è il loro conservare una voce decisamente poco virile. E se è pur vero che le ragazze in Simoun si baciano a ogni piè sospinto, il bacio più interessante mi è parso di sicuro quello scambiato con estrema nonchalance tra due uomini (episodio 25).
Si arriva qui al cuore della vexata quaestio: e chi tale scelta non la volesse affrontare?
Chi alla dicotomia gender binaria volesse sottrarsi?
Quale destino immaginarsi, giusto per dirne una, per chi volesse restare Sybilla?
Va tenuto conto che nei territori solari dell’anime si adora il Tempus Spatium, entità invisibile quanto pervasiva, a considerarne solo l’influenza determinante nello sviluppo personale e sessuale dei singoli. Che margine individuale è concesso allora alla scelta o all’infrazione che si determina laddove alla scelta si dica no? Ci si può sottrarre al tempo e allo spazio, al cambiamento, alle contingenze esteriori anteponendo derubricate e inclassificabili vocazioni interiori?
Esiste cioè per l’essere umano una condizione di libertà, d’assolutezza leibnizianamente intesa, indipendente dalle due alternative? E trovandosi alle strette, sul limite anagrafico consentito per decidere, come valutare poi se sia preferibile compiersi in quanto donne o sperimentare la vertigine del diverso diventando uomini? A che criteri affidarsi?
Persino l’affetto rivolto durante l’adolescenza agli esponenti del proprio stesso sesso incappa in un rovesciamento singolare: poiché ci si innamora dell’uguale, è la stessa omosessualità che spinge ambiguamente a mutar sesso, al fine di corrispondere meglio alle aspettative di un futuro di coppia concepito nell’ottica tradizionale.
Il dramma di Simoun è per ognuno un dramma terribilmente identitario.
Le Sybille soffrono scisse tra la condizione quasi asessuata di vergini, dedite costantemente alla preghiera, e quella di guerriere implacabili, che della lode a Dio fanno scempio strumentalizzandola nel peggior modo. Neviril si distrugge, logorandosi tra il peso del passato e la pressione del presente, interrogandosi sulle conseguenze di due amori per lei ugualmente destabilizzanti.
Paraietta subisce le derive del suo ruolo di comando, dimostrandosi inadatta all’esercizio del carisma, anzi tradendo se stessa nel sovrapporre la propria passione individuale per Neviril alla responsabilità doverosa nei confronti del gruppo intero. Mamiina, il personaggio più commovente, il più dinamico e implodente, paga il peso dell’umiliazione accumulata e barattata con l’aspirazione all’insperato salto di condizione, passaggio la cui catarsi, anche sociale, tarda ad arrivare, non però l’eroico sacrificio del doloroso epilogo.
Per stratificazione di richiami mistico-gnostici, solo Evangelion regge il confronto con Simoun.
Assoluta la bellezza della colonna sonora firmata da Toshihiko Sahashi: qui il fluid si configura nello spaziare da pezzi epici – adattissimi alla tensione delle battaglie aeree – a brani nostalgici, incursioni nella tradizione melodica ottocentesca partenopea e nei generi canonici, fino al celebre tango, che nell’evolversi delle vicende segna non a caso le Spannung emotive tra Neviril e Paraietta, oltre a scandire la lunga, toccante sequenza finale, una delle più liriche nella storia dell’animazione nipponica recente.
Dopo questa doverosissima parentesi musicale, poiché la storia generale è troppo complessa e i personaggi decisamente fluttuanti, non solo sessualmente, per inquadrarli in ritratti che rendano loro giustizia, ritorniamo soltanto un momento al configurarsi, per dirla in termini medioevali, della ‘visio’. Lo facciamo per svelare, almeno a maglie larghe, le caratteristiche umane di chi riesce a fare il salto, ritrovandosi addirittura nella circostanza di fondare un mondo nuovo, battendo in volata Tempus Spatium senza costringersi a una scelta, ovvero senza sottostare alle imposizioni segreganti e avvilenti di qualsivoglia dicotomia.
Rivelando Simoun, più che natura simbolica, liquida disponibilità alchemica, non stupisce che a farlo siano quattro personaggi, proiezione di tre dimensioni spirituali differenti: Dominura, Limone e infine la coppia di protagoniste rappresentate da Neviril e Aaeru.
Alla dicotomia distruttiva dell’opposizione dei fronti e della guerra cieca, si sottrae Dominura, che ha ‘visto’ cosa contengono i Simoun, sa cosa sono i Simoun e dunque, unica su tutti, ha verificato la natura di Tempus Spatium, decidendo di sfidarlo. Dominura rappresenta la Consapevolezza dell’età adulta, che si raggiunge solo quando si sceglie audacemente di vedere: la sua curiositas ha un’affinità antica con la curiositas di Psiche che scopre la natura terribile del divino Eros nel suo letto, forzando i limiti della sua umana condizione.
Alla dicotomia mercenaria dell’amore ridotto a innamoramento e scambio sessuale, si sottrae Limone, che incarna, bambina immatura e pair d’elezione di Dominura, l’Innocenza dell’infanzia. E l’innocenza, per essere e rimanere tale, non si affida tanto all’età anagrafica quanto alla purezza: qui purezza dello sguardo e dell’immaginazione, perché senza purezza non è dato riflettere, sognare l’utopia, né sperare di muoversi o vedere al di là del vincolo, per disporsi a infrangerlo.
Chiudono in bellezza, anche in senso letterale, Neviril e Aaeriu, le due ragazze innamorate che raffigurano il Coraggio della giovinezza. O, per dirla come nell’anime, quel quid interiore di temeraria, infinita intensità che fa la differenza: “Cosa darei per provare anch’io una passione così struggente!” sfugge a un certo punto a uno dei comprimari guardandole.
Sono loro a sconfiggere la dicotomia più radicale, lo spazio-tempo, il legame alienato che uccide i sogni, affonda le illusioni, fossilizza l’imprevedibilità e le potenzialità infinite della Vita.
Quelle possibilità mirabilmente racchiuse nella sillaba più speciale sui cui fantasticare: “Se…”.
In Simoun la guerra non finisce ed è destinata a venir ripresa a ogni refolo di vento, ma l’augurio è netto e luminoso come le eliche dei suoi apparecchi volanti: qualunque cosa accada, Innocenza, Consapevolezza e Passione ci salveranno. E, fluidamente, si tratta di doni delicatissimi, inseparabili dalla volontà di coltivarli e preservarli, sempre rimessa infine all’arbitrio di ognuno di noi.
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Un capolavoro assoluto e totalemnte passato inosservato