È innegabile che i mesi di settembre ed ottobre 2022 siano stati dominati, in materia di serie TV, dal genere fantasy e da due serie: House of the Dragon e Gli Anelli del Potere (di cui vi abbiamo parlato in questo articolo). Due serie “evento”, dall’alto budget e da lungo tempo attese, due serie con una grossa quantità di aspettative sulle spalle e di continuo confrontate, vista l’uscita contemporanea degli episodi. Così come sono state confrontate con i materiali di partenza.
House of the Dragon

Confronti inopportuni

Tali confronti, ad onor del vero, hanno poco quanto nessun senso di esistere. L’unico reale tratto in comune fra le due opere è essere dei fantasy con ambientazione medievaleggiante e prequel delle opere principali dei rispettivi autori, ma solo questo.

Il Signore degli Anelli: Gli Anelli del Potere adatta materiale tolkieniano di decenni fa, usandolo come ossatura della serie, mentre House of the Dragon parte da materiale contemporaneo, con una narrazione diversa ed incompatibile con il medium seriale audiovisivo. L’intero mondo di Planetos concepito da George R.R. Martin e le storie che vi si ambientano sono sì ispirate dalle opere di Tolkien (da sempre ammirato dall’autore), ma di fatto lo decostruiscono del tutto, in primis nei rapporti tra personaggi e nel modo di trattare la dicotomia tra bene e male. In tal senso, operare un confronto tra le due serie risulta infruttuoso, proprio perché per intenzioni e narrazione esse sono incompatibili e quindi radicalmente diverse. Allo stesso modo, risulta inutile il confronto sul piano tecnico, se si parla di effetti speciali, mentre aspetti come regia, fotografia e montaggio possono essere fertile terreno di discussione.

Secondo confronto, più interessante ma altrettanto infruttuoso, è quello tra serie e libro di partenza. Fuoco e sangue è scritto sempre da Martin, ma sotto forma di cronaca storica, ossia immaginando che sia un personaggio vivente nel mondo narrativo a ricostruire e raccontare (la prima parte degli) avvenimenti storici che coinvolgono la casa Targaryen. Sorgono pertanto dubbi, punti oscuri, “buchi” nella narrazione ed incertezze varie, comuni anche alla ricostruzione della nostra storia. Inoltre, il libro è densissimo a livello di avvenimenti narrati, ma non vi trovano spazio caratterizzazioni psicologiche approfondite e dialoghi, salvo rari casi. I personaggi, infatti, vengono conosciuti dal lettore tramite i filtri che la ricostruzione storica pone, in netta antitesi con i libri delle Cronache del ghiaccio e del fuoco che permettono di leggerne i pensieri. Pertanto, risulta chiaro come la distanza che divide le due opere sia tale da rendere necessari cambiamenti e “decisioni” in merito alle ambiguità che il libro volutamente lascia.

Questo al di là del fatto che nessun adattamento deve essere giudicato sulla base della sua fedeltà al materiale di partenza. La fedeltà non è indice di qualità ed un prodotto deve funzionare in maniera a sé stante, come Shining insegna.

L’impresa vale la spesa, per House of the Dragon?

Ancor prima della sua pubblicazione, addirittura ancor prima del primo trailer, questa serie aveva sulle spalle una maledizione chiamata “stagione 8 di Game of Thrones”. Un finale pessimo sotto ogni punto di vista, soprattutto di scrittura, che ha marchiato un intero franchise. Se da una parte questo ha abbassato, per alcuni, le aspettative sul prodotto, dall’altro ha generato altri effetti, come azzerare la curiosità o addirittura la voglia di avventurarsi nuovamente nel mondo di Planetos (o Westeros, per essere specifici).

Chi vi scrive era disilluso sul prodotto e fino alla pubblicazione dell’ultimo trailer aveva poca quanto nulla voglia di fruirne, poi qualcosa è cambiato. Con questa prima stagione House of the Dragon ha avuto la possibilità di essere una rivincita per il franchise, dichiarando al mondo che era ancora possibile tornare ai fasti delle prime stagioni di GoT. Riuscendoci.

Forte della fama della precedente serie, questo prequel non lesina sul budget, investendo circa 200 milioni di dollari in dieci episodi, potendo così esibire una qualità visiva simile a quella delle ultime stagioni di GoT, nel bene e nel male. Per essere un prodotto seriale e quindi non concepito per la sala, House of the Dragon si difende benissimo, sfoggiando ambientazioni sempre convincenti, seppur non perfettamente limpide. Essere inoltre un prequel (e avere più budget delle prime stagioni di GoT) permette diverse libertà creative verso gli ambienti già conosciuti nella precedente serie, come ad esempio Approdo del Re ed alcune sale del palazzo, nonché il trono stesso, molto più convincente.

House of the Dragon

I draghi, qui presenti in maniera più massiccia rispetto al sequel, sono spesso mostrati parzialmente, coperti da buio, fumo, polvere e quant’altro, ma le rare volte che appaiono “in chiaro” e completi convincono e si fondono abbastanza bene con l’ambiente circostante. È stupendo poter ammirare lucertoloni con colori diversi, dal rosso sangue al dorato al blu, con fisionomie riconoscibili e corporature uniche (parlo di te, drago enorme che ricorda Godzilla). Questo permette una identificazione immediata al di là dei nomi, per “colpa” di Martin complessi da memorizzare, tra un Arrax di qua ed un Caraxes di là.

Al di là degli effetti speciali, il comparto tecnico è di livello e costante. La fotografia è coerente e funzionante in quasi tutta la serie, con l’esclusione di qualche filtro scuro che ricorda l’infame terzo episodio dell’ottava stagione. Il montaggio si mantiene nella media, oscillando fra picchi (come una certa scena dell’ottavo episodio) e qualche calo. La regia è affidata a quattro nomi diversi, rendendo l’occhio più esperto insofferente alla cosa e non riuscendo a rimanere impressa a livello stilistico, pur avendo anche qui un buon livello medio.

Un plauso anche alla colonna sonora, che serpeggia tra riarrangiamenti di temi passati e potentissime nuove tracce, utilizzate in maniera azzeccata e mai invasiva.

Ok ma quando parli della storia, della ciccia, della trama?

Perché alla fine, sotto sotto, è ciò per cui questa serie è così seguita e discussa. Gli ingredienti sono gli stessi di Game of Thrones: mondo non-troppo-fantasy, complotti di corte, bassezze morali, personaggi grigi, sesso e violenza. Ma ci sono più draghi. E i draghi in un fantasy medievaleggiante sono come il cacio sui maccheroni. Questi ingredienti però funzionano solo a patto di avere uno strumento per amalgamarli: la sceneggiatura. La scrittura dei personaggi e dei dialoghi, unitamente ai colpi di scena, sono ciò che hanno permesso a Game of Thrones di ottenere un successo planetario ed imprimersi nella storia delle serie TV.

La struttura di questa stagione alterna le vicende narrate a salti temporali lunghi anche anni, raggiungendo la linearità solo negli ultimi episodi. Tale scelta è non solo comprensibile ma pienamente funzionale. Questi dieci episodi, infatti, introducono i principali protagonisti della vicenda, creano affezione con il pubblico, ne delineano una caratterizzazione e portano ad un build-up delle vicende che sfoceranno nell’evento noto come “La Danza dei Draghi”. I time skip scelti permettono così di non dilatare le vicende all’inverosimile ma allo stesso tempo di far funzionare l’intera stagione a livello narrativo, senza che risulti, com’era rischioso fosse, solo un lunghissimo pilota alle vicende successive. Sempre in tale ottica, risultano perfette le attrici Milly Alcock ed Emily Carey, chiamate ad interpretare le versioni giovanili di Rhaenyra Targaryen ed Alicent Hightower, castate dopo aver scelto le loro controparti adulte ed in grado di imprimersi negli spettatori in modo così efficace da far avvertire la loro mancanza una volta scomparse dallo schermo (salvo eventuali ritorni per scene flashback).

Il ritmo della storia è quindi ben cadenzato, riuscendo ad evitare episodi vuoti o troppo lenti, inciampando giusto nel terzo e nel penultimo episodio. La gestione della tensione e la creazione del conflitto procedono di pari passo con la caratterizzazione e lo sviluppo dei personaggi, in un intreccio organico ben pensato ed organizzato, che permette ai principali protagonisti delle vicende di brillare come fuoco di drago nella notte. Personaggi che sono il vero cuore pulsante di tutta la serie: complessi, sfaccettati, umani, pieni di debolezze e difetti. Quel che si dice spesso e ovunque dei personaggi ben scritti, ma è giusto ogni tanto cedere alla tentazione di essere banali. La scrittura così solida di molti personaggi esiste grazie alle loro interazioni, ai dialoghi di alto livello che permeano ogni episodio e tengono alta l’attenzione, spazzando via la noia e la monotonia.

Questo non sarebbe possibile però senza un casting perfetto per quasi la sua totalità. In particolar modo bisogna dar credito a Matt Smith nel ruolo di Daemon Targaryen e Paddy Considine nel ruolo di Viserys Targeryen. I loro personaggi posseggono un carisma naturale nel loro essere fratelli ma opposti a livello caratteriale, legati da un profondo affetto ma molte volte in disaccordo. Smith riesce spesso a dominare le scene in cui appare anche senza proferire parola. Considine, invece, porta in scena un re poco autoritario, accondiscendente e pacifico, ma che si fa spazio nella mente dello spettatore grazie alla scrittura sopraffina, arrivando ad essere protagonista della scena più bella dell’intero franchise (secondo chi vi scrive), nonché probabilmente di una delle migliori entrate in scena di un personaggio mai viste sul piccolo schermo.

I due sono i più lodati in rete e le richieste di un Emmy per Considine non sono poche, ma non sono i soli attori incredibili che la serie offre. Le due Rhaenyra funzionano benissimo, con Emma D’Arcy che offre un’incarnazione adulta del personaggio che buca sempre più lo schermo all’avvicinarsi del finale, con quello sguardo in macchina sul finire della stagione che la immortala in maniera definitiva. Allo stesso modo Rhys Ifans (Otto Hightower), Olivia Cooke (l’adulta Alicent Hightower), Eve Best (Rhaenys Targaryen) e Matthew Needham (Larys Strong) offrono interpretazioni più che convincenti.

Ma sperticarsi in lodi è poco divertente, perciò è giusto notare come proprio nella scrittura risieda il principale difetto dell’intera stagione. Difetto riassumibile in un termine: spettacolarizzazione.

House of the Dragon è una serie per i grandi numeri ed il grande pubblico, per cui cerca di offrire costantemente quello che ha tenuto attaccato suddetto pubblico nell’opera precedente: colpi di scena, esplosioni di violenza inaspettate ed eventi traumatici.

Questo tipo di spettacolo però necessita non solo di una creazione, ma di una coerenza al resto del tono dell’opera e all’aderenza al contesto che ne fa da base. Significa che non si deve per forza offrire questo tipo di avvenimenti in ogni episodio, cosa che comunque la serie decide di fare, giungendo ai suoi momenti peggiori. Alcuni avvenimenti spettacolari ed inaspettati avvengono infatti al termine di episodi di alto livello, ma magari privi di violenza o colpi di scena. Ma il modo con cui avvengono è forzato e slegato dagli eventi, sfociando in una mancanza di logica al punto tale da sembrare quasi parte di un altro contesto, di un altro mondo narrativo, di un altro modo di narrare. Molti degli avvenimenti incriminati sono incastrati a forza nella narrazione, solo per creare il cliffhanger di fine episodio o per dare il contentino a quel tipo di pubblico pronto ad urlare “non succede niente” se non c’è uno scannamento o due (nota spoiler).

Per quanto però questo difetto sia molto grave e non sia il solo, non è sufficiente a disgregare l’intera stagione. Vi sono qua e là trovate non particolarmente brillanti, personaggi non proprio ispirati o con un casting perfetto e qualche dialogo sottotono. Condensato di questi problemi è Criston Cole, che senza mezzi termini delude in ogni modo possibile, dalla recitazione alla scrittura.

 

I temi di House of the Dragon

Per i coraggiosi che dopo aver sentito parlare della “trama” non balzeranno alle conclusioni, è utile notare come tutta l’impalcatura della serie veicoli dei temi ben precisi, comuni anche con Game of Thrones e con Martin in generale.

Colonna portante è la sempiterna domanda: “Cos’è il potere? Dove risiede?”. Eliminando dal suo mondo molti elementi dell’high fantasy e cercando un realismo nelle azioni dei personaggi e nelle loro conseguenze, la domanda sorge spontanea non solo fuori dalla narrazione ma anche dentro. I personaggi se lo chiedono e si danno le risposte che più ritengono opportune, ma in senso filosofico la discussione è molto più ampia.

Da un lato, la presenza massiccia dei draghi fa propendere alcuni personaggi verso quella risposta, ma come Viserys fa notare e come la serie stessa sbatte in faccia allo spettatore sul finale di stagione, i draghi non sono strumenti. Sono creature estremamente pericolose, come aerei in un mondo dove si combatte con frecce e spade. Sono formidabili e pericolosi, ma allo stesso tempo caotici, distruttivi ed incontrollabili. Chi li comanda può essere ritenuto più vicino agli Dei che agli uomini se si è abbastanza impressionabili, ma umano resta. Questo utilizzo dei draghi come strumento narrativo pone quindi in luce anche una riflessione sulla natura delle armi, sul loro utilizzo come deterrente e le conseguenze devastanti cui possono portare. È pertanto chi possiede tali armi a detenere il potere? Ma chi ha permesso a tali individui di venirne in possesso?

Un’altra risposta che ci si può dare è che il potere risieda nel re (o nel governo, se ci piace parlare del nostro mondo), è ovvio. Ma cos’è un Re? Cosa lo definisce? Non il sangue, forse nemmeno un simbolo di legittimità come una corona e nemmeno una proclamazione in pubblica piazza.

Dalla serie arriva un’altra possibile risposta: il potere giace dove le persone decidono di riporlo. Un re è tale perché il suo popolo lo riconosce con quel titolo e decide di sottomettere ad esso il proprio liberto arbitrio. Ma non solo il popolo, l’esercito, la sua famiglia, i suoi servitori, il suo drago. Non è un caso che la caduta dell’individuo cui è affidato il titolo di re porti al conflitto, nonostante questi non fosse un leader autoritario. Nel momento in cui la legittimazione ad avere il potere viene meno questa si affida ad un nuovo individuo. Non è quindi detto che non sorga una divergenza, con chi ritiene che debba essere qualcun altro a possedere il potere ed i titoli che ne conseguono.

Le ramificazioni di queste tematiche toccano anche il genere femminile e il suo ruolo nella società. La scelta di adattare proprio questa parte della storia dei Targaryen risulta perfetta in un’epoca in cui si è sempre più sensibili verso l’argomento dell’emancipazione femminile e il progresso verso un’effettiva parità dei sessi. L’idea stessa di partenza della serie e del conflitto che va a creare è che una donna non può sedere sul trono di spade solo perché donna e perché “così è sempre stato”.  La figura della donna in House of the Dragon si declina come vittima del potere che la opprime e la priva di libertà, ma anche come espressione di potere stesso tramite l’influenza su altri individui. Rhaenyra ed il suo essere erede al trono, i dialoghi di Rhaenys con il marito e con Rhaenyra ed Alicent stesse, Alicent e la sua evoluzione rendono le donne vere protagoniste della serie. Queste però sono anche le figure più moderate, comunque grigie ed umane come tutti i personaggi, ma capaci di non perdere il controllo, a differenza degli uomini che ricorrono alla guerra come prima risorsa. Il loro scontro ideologico con le figure maschili, affamate di controllo, si palesa con personaggi come Otto e Larys: la “scena dei piedi” è sostanzialmente una forma di violenza e dominio ed in quel momento è Larys ad essere in una posizione di potere. Qualcosa di simile lo vediamo anche con Daemon Targaryen (in alcuni aspetti) e Corlys Velaryon.

Ultimo (per evitare liste della spesa) tema affrontato è la storicizzazione, l’eredità e l’impronta che si lascia sul mondo e quanto alto è il prezzo da (o che vale la pena di) pagare per essere ricordati.

Conclusioni? Conclusioni

Nella sua decina di episodi e quasi dieci ore di durata, House of the Dragon riesce non solo a creare una nuova iterazione del suo franchise, ma ad assumere un’identità propria ed indipendente dalla serie di cui è prequel. Tra una produzione convincente ed un parco di personaggi nuovo ma già memorabile, si viene a creare una trama di intrighi, dialoghi e draghi che promette bene per le prossime stagioni, talmente tanto da poter dire che House of the Dragon ha le potenzialità per superare Game of Thrones.

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Nota spoiler

Le scene più problematiche in tal senso sono nel terzo episodio, globalmente forse il peggiore della stagione, dove Deamon sopravvive ad una pioggia di frecce. Mutuando le parole di un mio collega dal suo articolo su Gli Anelli del Potere, “nel 2022 solo gli Stoorm Trooper di Star Wars hanno il diritto di mancare un singolo bersaglio con una selva di blaster, in qualsiasi altro prodotto un esercito di arcieri non ha scuse per non colpire un personaggio con una freccia, per di più a breve distanza“.

Ma ben peggiori sono le scene nei finali del quinto e nono episodio. L’esplosione di violenza di Criston Cole avviene con pochissima costruzione e giustificazione, ma soprattutto senza che nessuno lo fermi e ancora peggio senza che vi sia nessuna conseguenza. Non un processo, nulla. E non si parla di spaccare la faccia ad un popolano, ma ad un dannato nobile e amante dell’erede della casa più ricca dei Sette Regni, che si becca anche un pugno in faccia nel mentre. Terribile.

Nel nono episodio invece c’è la classica fregatura del “eh ma così finiva la serie”. Esatto, se Rhaenys avesse pronunciato il suo Dracarys avrebbe risolto tutto, finendo una guerra prima ancora di iniziarla. Quindi non valgono le sue giustificazioni nell’ultimo episodio, quella scena non ha logica e senso di esistere e non bisogna in primo luogo condurre i personaggi in quel tipo di situazioni.

 

Video e foto dall’Ufficio Stampa Sky.

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