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Per Aspera ad Astra – Intervista a Lorenzo Fonda

Per Aspera ad Astra, di Lorenzo Fonda, Coconino Press – Fandango, collana Coconino Cult – commento e intervista

Clicca qui per il commento a cura di Angelo Giannone
Clicca qui per l’intervista a Lorenzo Fonda, a cura di Angelo Giannone



commento a cura di Angelo Giannone

Per Aspera ad Astra di Lorenzo Fonda è un libro difficile da definire. A livello tecnico, si tratta del suo primo fumetto pubblicato da un editore, ma di certo non la sua prima produzione in campo artistico. Quindi, siamo di fronte ad un fumetto a tutti gli effetti, per la precisione un lavoro autobiografico. Ma siamo anche di fronte ad un diario, un memoir, un assemblaggio di pezzi di vita; forse ad un tentativo di autoanalisi e di sicuro ad un tentativo di elaborazione del lutto. L’arte non ha bisogno di definizioni rigide entro cui essere reclusa, ma allo stesso tempo necessita di linguaggi per dialogare con i suoi destinatari. Quindi, questo lungo insieme di pagine, disegni, testi e fotografie (!) che è Per Aspera ad Astra parla il linguaggio del fumetto, ma ne sfida anche qualche confine autoimposto dalle pagine della Storia e della tradizione.

Allo stesso modo, la stessa lettura è una sfida. Le pagine sono tante e spesso pregne di testo, ma la sfida non è “tecnica”, bensì di contenuto. L’unione di lettere e segni – e la trasfigurazione dell’autore in una forma semplice e riconoscibile – ha un potere unico nel veicolare un dolore incommensurabile. Eppure, brandire quel potere per mettersi a nudo (a volte letteralmente) nei propri momenti migliori e peggiori, nei difetti, nei vizi, nei rimpianti richiede un immenso coraggio. Ma come nei migliori viaggi dell’eroe, quel potere e questo coraggio conducono ad una catarsi, tanto per la persona-autore che diviene personaggio, quanto per il lettore.

Ecco come Per Aspera ad Astra è altro ancora rispetto all’elenco di qualche riga fa. Siamo di fronte ad un atto d’amore verso l’arte come mezzo di creazione, comunione, comunicazione e, appunto, elevazione. Siamo anche di fronte ad un atto d’amore verso la vita. Quella vita che si è spenta troppo presto ed è, nel fumetto come fuori dallo stesso, celebrata. Ma anche un atto d’amore verso “la vita” nel senso più ampio, per quanto forse inconsapevole. Siamo (anche) di fronte ad un libro pieno di vita. Di amicizie, di celebrazioni, di azioni collettive che fanno sentire vive e unite le persone nel ricordo di chi vivo non è più.

Avventurarsi attraverso le centinaia di pagine di Per Aspera ad Astra è un costante oscillare: tra vita e morte, presente e passato, solitudine e compagnia, fumetto e realtà. L’insieme di emozioni che mi ha suscitato – mi si perdoni l’uso della prima persona – è difficile da definire. Come questo fumetto, dicevo all’inizio. Magari esiste da qualche parte una lunghissima e impronunciabile parola tedesca capace di dare forma e definizione a questo agglomerato emotivo. O magari è meglio non provare a relegarlo entro i confini di una o più parole. Perché nella sua lettura ci sono stati momenti di indescrivibile gioia e tenerezza (anche a causa di Futura, ma qui è mia la colpa), ma anche di dolore così insostenibile da doversi fermare (per chi “sa”, quella tavola in rosso credo sia difficile da sostenere per chiunque sia dotato di un minimo di empatia).

Ed arriviamo alla fine della supposta “breve” introduzione, per lasciarvi all’intervista. Questa lunga chiacchierata – come lo è il fumetto, quindi l’introduzione non poteva essere da meno, no? – ha da un lato saziato tante mie curiosità “tecniche” e dall’altro fatto un’incursione in aspetti più tematici e umani. E mi ha fatto apprezzare ancora di più la persona che avevo intravisto attraverso quelle pagine. Non vi rubo altro tempo, buona lettura.

la cover dell’albo Per aspera ad astra, di Lorenzo Fonda, edito da Coconino Press – Fandango, nella collana Coconino Cult

Allora, la prima domanda era relativa al fatto che questo è circa il tuo primo fumetto

Il mio primo fumetto pubblicato da un editore, insomma, come autore così, perché in realtà mi sono autopubblicato un paio di fumetti.

Mi piacerebbe cominciare quindi con una curiosità: da dove nasce la tua passione per il fumetto? Come si è evoluta?

Guarda, la passione c’è da sempre, proprio. È sempre stata una cosa che ho fin da piccolo, davvero, fin dai tempi dei Topolini, dei vari Jacovitti e di altri fumetti. I miei genitori compravano Cuore. E insomma, [la passione] è rimasta. Poi sono sempre stato anche un illustratore, e per quello la passione per i fumetti è sempre andata in parallelo con questo mondo delle arti visive, con il genere che mi interessava. Io non ho fatto fumetti veri e propri finché non ho avuto circa venticinque anni; ho iniziato un po’ così. Prima era perlopiù solo illustrazione, però comunque ero sempre interessato ai libri, a comprarne. È sempre stato un linguaggio che per me rappresenta un incredibile modo di raccontare storie. Un modo che, come sappiamo tutti, connette letteratura e arti visive.

E qui si agganciava la seconda domanda. Perché il tuo diario, lo chiamerò così da qui in avanti, sembra un po’ mettere alla prova anche i confini a cui un lettore di fumetti può essere abituato: dal lettering, all’inserimento di vere e proprie fotografie che, volendo, abbattono anche un po’ alcune barriere tra autore e fruitore. E quindi la seconda domanda è: com’è nato questo approccio alla forma, come mai sfidare tutte queste regole?

È nato in maniera abbastanza spontanea, non avevo nessun piano, diciamo. L’unico riferimento che avevo era semplicemente un diario autobiografico che avevo ottenuto quasi otto anni prima, che era uno dei due libri che ti dicevo mi sono autopubblicato. Era un diario illustrato che avevo ottenuto quando ero andato a Cuba, un viaggio che avevo fatto con i miei genitori. In quel periodo vivevo in America, a New York; ogni anno i miei genitori venivano a trovarmi e andavamo da qualche parte in America. Per cui quell’anno siamo andati a Cuba e ho realizzato questo diario.

Anche lì è stato molto spontaneo. Alla fine è venuto fuori questo libriccino di una sessantina di pagine, dove ogni pagina aveva un approccio grafico, diciamo, differente dalla precedente e da quella dopo. Semplicemente, non lo so, mi piace così, mi diverto a variare. Forse ho un problema con i fumetti in cui ogni pagina è sempre la stessa.

Ad esempio quelli con griglia classica, sempre uguale.

Non lo so. Che poi, in realtà, ho appena letto il libro Odio l’estate, di Kalina Muhova [link: https://www.rulez.works/product/odio-l-estate] e il suo libro è [con vignette, n.d.r.] dello stesso formato, però è incredibile, a me è piaciuto tantissimo, e quindi non è che c’è una formula che funziona, è ovviamente soggettivo. Io ho bisogno che una cosa, soprattutto se è un progetto personale, mi diverta e anche che sia un po’ una sfida. Mi piace sempre cercare di uscire dalla comfort zone, del “ok, so fare questo, lo faccio perché lo so fare bene”.

Invece, ci sono anche dei momenti in cui, anche poi nei miei lavori che ho fatto da regista, da filmmaker, ci sono degli esperimenti che non sono neanche venuti bene, però farli mi ha gasato tantissimo e mi ha lasciato qualcosa mentre li facevo e mi hanno fatto dire: “anche se non è venuto come pensavo, come volevo, è stato bello farlo”. E quindi anche con questo diario, per me, anche se magari ci sono delle pagine che non sono perfette, sono venute bene per me, già solo la sfida di riuscire a raccontare qualcosa in quel formato, magari un po’ differente da altro, mi ha lasciato qualcosa.

Delle centinaia di tavole di Per Aspera ad Astra, questa è una di quelle “anomale”. E non è certamente l’unica.
Si ringrazia Coconino press

Infatti avevo un paio di aspetti che mi interessavano, un pelo più tecnici. Il primo era questo discorso delle fotografie. A me piacciono molto i fumetti autobiografici e c’è sempre un filtro, di come uno si rappresenta, come si vede. Con le fotografie quella barriera un po’ si infrange, perché almeno io da lettore, sono potuto entrare in una certa realtà, “spiarla dalla finestra”. Volevo capire se anche questo era un effetto voluto, una cosa proprio cercata per avvicinare il lettore, perché non l’ho incontrata tanto spesso.

No, non era pianificato, un po’ come il resto del libro. Non sono partito dicendo “userò foto”. Secondo me è successo in maniera organica: quando ho iniziato a impaginare, a provare a dare una forma per un primo PDF leggibile da condividere – ma anche per me, per vederlo in ordine – c’erano delle sezioni in cui sapevo di voler raccontare una certa cosa e, magari, non avendo ancora niente di visivo, ci piazzavo una foto.

Per cui, pian piano, mi dicevo: “Ma tanto poi questa la rifaccio” o volevo farci un acquerello (e per alcune l’ho fatto). Per altre, invece, pian piano, pensavo: “Ma sai che queste foto non rompono il ritmo visivo del disegno? Anzi, mi danno anche un momento di respiro tra una storia e l’altra”. E così, pian piano, ho detto: “Ma sai cosa? Proviamo a tenerle”. Anche alcune persone mi hanno detto: “Ma sai che mi piacciono le foto? Le tieni?” E io [rispondevo]: “Mah, non ci stavo pensando bene”. Però, secondo me, alla fine funzionano. Altri mi dicevano: “No, ma quelle le rifai tutte in acquerello, vero?” E io: “Non so, sai che stavo pensando di tenere le foto?” “Ah, davvero? Wow!” E alla fine, insomma, anche con Coconino abbiamo detto: “Teniamole, ci funzionano”.

Come linguaggio, io sono totalmente aperto a rompere le regole. Poi non è che ci sia questa grande regola che abbiamo rotto, però, insomma, da un fumetto ti aspetti che sia tutto fumetto. Certo, ci sono altri libri che l’avevano già fatto in altre maniere, per cui ho detto: “Ma senti, facciamolo”. Mi sembra che la risposta sia stata buona. Un paio di persone mi hanno detto: “Quando ho visto le fotografie, ho capito che stavo leggendo una storia vera, che era successa veramente”. Perché, finché la leggevi, [il lettore] diceva: “Magari si è inventato tutto, magari sta reinterpretando in maniera sconvolgente quello che è successo”. Invece vedi la foto e dici: “Ok, era lì, ha fatto quello, è successo quello”.

Diciamo che io ho avuto tre momenti che mi hanno molto emozionato grazie alle foto: quello in mezzo alla natura, in America, perché è un aspetto degli Stati Uniti che mi affascina molto, queste distese di nulla, di natura, che da noi sono rarissime; l’inaugurazione dell’installazione, anche quelle foto lì mi sono piaciute tantissimo; e le altre sono relative alla domanda ancora successiva a questa. Volevo capire un altro aspetto un po’ più tecnico, e cioè, come hai organizzato la cronologia. Perché le foto fanno anche da punto di rottura in questo aspetto. Racconti il presente, poi, magari, vai nel passato, racconti un episodio, poi torni nel presente e vai avanti, e volevo capire il processo dietro questa scelta, com’è stato realizzato e poi assemblato il diario.

Come ti dicevo, ho messo insieme questo primo impaginato, che era soprattutto per me, per dare una forma, per capire come approcciare il discorso della cronologia di queste tavole. All’inizio le ho messe un po’ a caso, proprio come quando butti [le carte] su un tavolo per vedere cos’hai. Invece, in questo caso, avevo messo una pagina di fianco all’altra per vedere ‘come sentivo’ quando le scrollavo, che sensazioni mi davano. Sono rimaste a caso per un po’, fino a che non ho capito che dovevo dare un qualche tipo di struttura al libro, perché mi sembrava tutto troppo casuale. C’era un misto di diario cronologico che avevo ottenuto all’inizio (soprattutto la prima parte) e poi c’erano questi flashback – chiamiamoli così – però era tutto un po’ [informe, n.d.r.].

Per cui, insomma, anche parlando con i ragazzi di Coconino, alla fine ho capito e ho detto: “Serve una struttura”. La struttura che mi darò è che il libro parlerà di esattamente un anno: l’anno dopo la morte di Elena, fino al primo anniversario. Quindi, come hai visto, il libro finisce al primo anniversario e poi c’è l’epilogo. Sapendo questo, ho iniziato a riprendere le tavole, che avevo magari già fatto, di questi miei flashback di Elena, le ho riprese e ho iniziato a spargerle lungo questo anno di cronologia.

Ho iniziato a guardare quello che avevo a livello di diari di quest’anno e a vedere come potevo inserire, a livello tematico, questi flashback, in base magari anche a quello che succedeva. Per dire, [se] c’è una tavola dove parlo del nostro matrimonio allora lì, magari una pagina dopo, ho infilato una tavola dove raccontavo del nostro matrimonio. In realtà non l’ho neanche fatto, però comunque era quello il concetto. [Oppure] Io mi faccio una sega in mezzo al Colorado, in mezzo al bosco, allora lì ho detto: “Magari qua ci metto le tavole della cabin ad upstate New York”.

Quindi è stato tutto un “proviamo a collegare il presente e il diario con questi flashback a livello tematico”. Diciamo che quella è stata l’unica cosa che mi ha un po’ guidato per dare questa forma di dialogo tra il presente e i flashback.

Devo dire – parere puramente personale – l’ho molto apprezzata come scelta, perché rompere la natura puramente cronologica ha funzionato. A livello generale si rischia di confondere, di dire “aspetta poi il lettore non sa più dove mettere cosa”, ma in realtà io non ho avuto problemi.

Si avevo anche considerato di mettere un codice visivo, tipo le pagine dei flashback con una cornice colorata, ma poi ho detto “ma no dai, fidiamoci dell’intelligenza del lettore”.

Una tavola del fumetto. Come si può notare, la struttura è molto libera e contiene indicazioni cronologiche.
Si ringrazia Coconino press

Allora tendenzialmente il target è adulto, secondo me ci si può affidare. Quindi, questa era più o meno la storia del diario. C’è un’altra storia che volevo conoscere e si ricollega alle fotografie di prima. Io sono una persona che ama i cani e nel diario si vede, anche se non sempre a parole, ma mi sembra proprio nei fatti, che il tuo cane Futura sembra avere un ruolo molto importante in quella parte della tua vita. Girando le pagine del libro, quando ho visto la prima foto di Futura mi sono un po’ messo a urlare e mi son detto “io devo sapere qual è la storia di questo cane, voglio conoscerla”. E quindi questa è proprio una domanda puramente personale ed emotiva che mi viene da porti.

Adesso che lo dici, forse avrei dovuto fare una tavola o due sulla storia, la sua “origin story”. I genitori di Elena hanno un cane che adesso ormai ha nove anni: è un po’ un mix, un po’ un setter, una razza un po’ simile a quella di Futura. Era già partita la pandemia, era tipo aprile del 2020, erano pochi che volevano fare i cuccioli e hanno trovato un cane di quelli che vanno a fare le gare. Thelma è rimasta incinta ed è stato un momento bellissimo per noi, ha fatto otto cuccioli e ce li siamo tenuti per due mesi. Abbiamo svezzati tutti, è stato un momento molto bello, Elena era già durante il secondo ciclo di chemio, c’era la pandemia, però stava arrivando la primavera.

Mi ricordo che eravamo in giardino con questi otto cuccioloni che giravano e correvano e abbiamo detto che ce ne saremmo tenuti uno, perché gli altri li abbiamo tutti dati ad amici e familiari. Abbiamo detto “vorremmo una femmina” e per fortuna c’erano due femmine e sei maschi. Una se l’è tenuta il padrone dell’altro cane, l’altra ce la siamo tenuta noi. Tra l’altro il papà di Elena l’ha vista una volta [l’altra femmina, n.d.r.] e ha detto che è tranquillissima, è molto carina ma tranquilla. Noi con Futura, invece, ci siamo beccati la pazza scatenata, però la amiamo per quello che è e non la cambieremmo per niente al mondo.

[Da qui è seguita una digressione sulla gestione dei cani, sui giochi e altri argomenti che, per amore di pertinenza non verrà trascritta, per cui si riparte dalla domanda successiva – n.d.r.]

Una cosa che mi è sembrato emergesse dal libro è la funzione catartica che ha l’arte per l’essere umano. Volevo capire se è qualcosa in cui tu credi, o se magari hai un’altra visione delle cose e questo è solo un qualcosa che è emerso dal libro. Sono curioso del tuo punto di vista.

Il mio rapporto con l’arte, con il “fare arte”, negli anni, invece che raffinarsi come definizione o consolidarsi come percezione, ha fatto quasi l’opposto. Sono sempre più confuso su cosa voglia dire per me fare arte, essere un artista. L’ho anche scritto verso la fine del libro, in un passaggio in cui dico che forse dovrei semplicemente smettere di chiedermi cosa voglia dire fare arte, a cosa serva fare arte.

Mi sembra che ogni volta che faccio un progetto, lo faccia per un motivo differente. Non è mai la stessa forza a spingermi, non è la stessa motivazione. Con questo [progetto], ovviamente, è stato come puoi immaginare e ci sono state varie motivazioni che mi hanno spinto. Però sì, in generale per me è importante che ci sia innanzitutto una motivazione di qualche tipo. È difficile per me mettermi a fare arte, a fare qualcosa semplicemente per farlo. Di solito sento che devo raccontare una cosa, un’emozione, una storia; voglio raggiungere un certo tipo di persone, voglio cercare di spiegare qualcosa a me stesso.

Quindi c’è sempre una motivazione. Per me, la motivazione è la spinta che mi fa iniziare un progetto. In secondo luogo, come ti dicevo prima, l’importante è che mi diverta a farlo. Alla fine, anche quando vedo che mi prendo troppo sul serio nel fare un progetto, sento che sto perdendo una parte di me. Ho capito che la mia identità come artista coinvolge comunque sempre un lato un po’ scherzoso. Ho visto che in questi 25-30 anni di carriera è stata quasi sempre una costante. Quando ero più giovane dicevo: “Ma l’arte vera è quella seria”. Poi, dopo un po’, [ho pensato]: “Ma che cos’è? Ma vaffanculo”.

L’importante è che, quando ho finito una cosa, la riconosca come mia. E quindi, se io sono quel tipo di persona, quel tipo di personalità, devo essere quel tipo di artista. Infatti, credo che dal libro si percepisca bene questo mio lato scherzoso.

Sì, credo che senza quella componente lì [l’ironia] secondo me il libro non avrebbe lo stesso valore o quantomeno io non mi ci sarei appassionato allo stesso modo. Non è solo una questione tecnica di ritmo, di rallentare e poi andare nei momenti più pesanti, non è solo quello, è proprio un modo di vedere la vita forse che traspare dal libro.

Sono d’accordo, sì.

Scherzare un po’ su tante cose, sia nella quotidianità di quello che hai raccontato, sia nello spirito che ha il libro, mi ha molto colpito.

Mi fa piacere sentirlo. Era uno degli obiettivi, quello di raccontare una cosa che ovviamente è pesante, ma dire che la vita può essere una merda spesso, quando vuole, ma comunque almeno abbiamo la libertà di decidere di essere anche, nonostante tutto, leggeri.

Un’altra domanda che volevo porti era relativa ad un altro aspetto ancora del libro ed è quanto sorprendenti siano sempre i legami umani, l’amicizia, proprio i legami con le persone, che siano conoscenze, amicizie storiche più o meno approfondite, quello è relativo alla fine. E volevo chiederti se, come accade in diversi momenti del libro, questa cosa continua a sorprenderti ancora oggi.

Sì, secondo me [questa cosa] continua… forse ‘sorprenderti’ può essere la parola giusta. È quasi una sicurezza. Sai, in realtà non è scontato che nella vita si sviluppino queste relazioni e, quando inizi a vedere che ci sono, che sono forti e che rimangono qualunque cosa succeda, è comunque una bella sensazione. Ti dà un senso di sicurezza, di comfort, che ti fa dire: “Vabbè, anche se mi risuccede una roba del genere o peggio – non so cosa possa esserci di peggio – so che comunque c’è tutto questo support system, questa rete di supporto”. Questa rete ti fa andare avanti e ti fa anche ritornare nel flusso della vita con una sicurezza, una confidence, che è metà del lavoro. Perché quando intraprendi un percorso sai già che hai “il culo parato” da quel lato. Insomma, è un bell’aiuto.

Per cui, come hai visto, ho dedicato il libro a questa comunità di amici, a queste persone. Persone che mi si sono avvicinate, ma in realtà ci siamo avvicinati tutti. È stato un po’ – credo si capisca dal libro – un modo per elaborare la perdita di Elena anche a livello di comunità. E quindi, secondo me, ci siamo aiutati a vicenda. È stato un bel modo, un bel meccanismo.

Ma infatti mi chiedevo “ma quanta gente conosce?”.

Eh, lo so, è stato un po’ un problema anche per me, ecco, far capire alla gente chi è questa o quella persona.

Esatto, ma anche anche durante Treviso [Treviso Comic Book Festival 2025] stesso, quando ero lì all’assegnazione dei premi [Boscarato], ho percepito molto questo senso di comunità, forse perché Treviso è anche così come fiera, molto legata al territorio.

Sì, [il festival] è molto legato alle persone. Poi è l’unico festival di fumetti a cui sono andato, credo, in Italia. Io, ripeto, non sono un fumettista, questa è la mia prima esperienza. Però lo conosco anche perché Elena era molto legata a questo festival, sia a livello geografico – tra Marostica e Venezia, lei aveva studiato a Venezia – sia perché aveva fatto progetti ed eventi assieme al festival. Conosceva quindi i ragazzi, tutta l’organizzazione. Di conseguenza, pian piano ho iniziato a conoscerli anch’io grazie a lei. È stato anche il festival perfetto, secondo noi, per lanciare il libro.

Sono perfettamente d’accordo, in realtà. L’ultima domanda, che potrebbe essere la più breve, la più facile o la più difficile, dipende. C’è una sezione che mi ha colpito molto, di poche pagine in realtà, sulle 370 di cui è composto il libro, dove parli e fai una metafora sul giocare con la palla. La domanda era abbastanza specifica, ed è se dopo tutto questo tempo tu pensi di essere riuscito a lanciare la palla, che è una cosa che dici a un certo punto, o se ci stai ancora giocando?

La cosa della palla è un po’ collegata anche alla cosa della candela alla fine del libro, dove io spengo la candela.

Non sono riuscito a trovare una risposta solo dalla candela, da questo è nata la domanda.

No, che è quello che in realtà un po’ che volevo. Volevo un po’ lasciare aperta questa cosa. Riuscirà Lorenzo a liberarsi di questo fardello?

Allora, non mi libererò mai di questo fardello, è impossibile. Penso, come tante persone che hanno attraversato un po’ la stessa situazione mi hanno detto, che si trasformerà in qualcos’altro, come già sta succedendo. Credo di starci ancora giocando un po’ con la palla.

Non lo so, credo che forse la partita non finirà mai, forse la vita mi metterà in panchina, e magari potrò osservare la partita dalla panchina e lasciar giocare anche qualcun altro, qualcos’altro. Spero di avere buttato anche un po’ di semi, di qualcosa che spero poi germogli con il tempo, che magari venga preso da qualcun altro. Anche quelle cose che abbiamo [fatto], come la parata dei costumi, stiamo cercando di capire come farla vivere ogni anno.

La sorella di Elena, Lavinia (che è anche lei una bravissima artista visiva), adesso che è tornata a vivere in Italia, vorrebbe prendere in mano un po’ l’organizzazione. Io qua dall’America faccio fatica. In generale, secondo me, la partita non finirà mai e io la giocherò in maniera diversa. Però sento che sto riuscendo, insomma, pian piano a trasformare il mio legame con Elena e con la nostra storia, a farla diventare, insomma, meno legata anche a livello emotivo. Mi sto riuscendo ad aprire, insomma, a lasciare che la mia nuova vita possa scorrere. Come quando togli le rocce da un fiume che dopo l’acqua scorre. Quella come immagine può funzionare.

la cover dell’albo Per aspera ad astra, di Lorenzo Fonda, edito da Coconino Press – Fandango, nella collana Coconino Cult, nella composizione da Canva, licenza d’uso
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