Inquietudini subliminali e spensieratezza musicale: Visions di Norah Jones
Articolo a cura di Gianluca Colazzo e Mariano Rizzo
In vent’anni di carriera, Norah Jones è sempre stata oggetto di uno strano pregiudizio: il grande pubblico è portato ad associarla a un unico genere, un pop-jazz dai toni morbidi che, negli Stati Uniti, viene definito non senza un lieve tocco di spregio Starbucks music. In realtà questo particolare stile ha caratterizzato solo i suoi primi due album (il secondo dei quali, Feels Like Home, nel 2003 la consacrò come star internazionale): a partire dal successivo Not Too Late (2007) la Jones ha continuamente dimostrato la sua propensione a sperimentare.
L’esito più felice del suo periodo sperimentale è di certo stato l’album Little broken hearts (2012), prodotto da quel mostro sacro della musica indie che è Danger Mouse; quando, in seguito, la cantante ha voluto tornare al sound che l’ha resa famosa (con Day Breaks del 2016), ha portato con sé il meglio delle sue esperienze precedenti. Insomma, contrariamente a ciò che si pensa, non esiste un album di Norah Jones uguale a un altro. E non è possibile cristallizzarla in un unico genere, specie se si tratta della Starbucks music di cui sopra.
L’ultimo lavoro in studio della cantante (se si esclude il delizioso album natalizio I dream of Christmas del 2021) è uscito nel primo periodo della pandemia da COVID-19: Pick Me Up Off The Floor, un album barocco dalle suggestioni soul, blues e gospel, territori in cui Norah non si era mai avventurata prima; per realizzarlo, Norah ha collaborato con un numero impressionante di musicisti e produttori, ciascuno dotato di uno stile personalissimo e riconoscibile. Il disco, salutato come uno dei migliori della sua carriera, portava in scena il lato più oscuro dell’artista: le atmosfere che esso evocava erano particolarmente dark e malinconiche; i testi, ora essenziali ora lirici, descrivevano stati d’animo scomodi che sembravano preannunciare i tempi bui che sarebbero venuti.

Lo scorso gennaio, con una mossa a sorpresa, Norah Jones ha annunciato il suo nuovo album Visions, definendolo “lo yin di uno yang rappresentato da Pick Me Up Off The Floor”: i temi trattati (come si spiega alla release del disco), sarebbero stati la gioia di vivere, la voglia di danzare e di prendere il buono che dà la vita; i primi due singoli Running e Staring at the Wall sembravano in effetti andare in quella direzione. L’album è uscito lo scorso 8 marzo: è arrivato dunque il momento di verificare se queste promesse sono state mantenute.
Per rispondere a questa domanda partiamo dalla fine, ossia dalla traccia che chiude il disco, That’s Life. A ben vedere questo titolo sembra fare il verso a un brano del precedente album, This Life: esso era dotato di una melodia malinconica e di un testo essenziale, composto quasi esclusivamente dalla ripetizione dell’inquietante frase This life as we know it, is over, seguito da rassegnati consigli su come affrontare questa tragedia. Cambiando il pronome dimostrativo (ma anche sound e approccio generale), il nuovo brano offre anche un nuovo punto di vista sul problema: la nostra esistenza è fatta di cose belle, cose brutte e tutto ciò che c’è nel mezzo. That’s Life, appunto, e per affrontarla occorre stare in pace con sé stessi.
Sarebbe riduttivo, tuttavia, affermare che Visions sia un album “allegro” (così come è riduttivo definire “cupo“ il suo predecessore). Norah Jones si è stavolta affidata stavolta a un ristretto numero di collaboratori e a un solo produttore, Leon Michels, che con lei firma otto delle dodici tracce del disco (tredici nella versione deluxe). Oltre a curare il sound engineering, il talentuoso polistrumentista suona percussioni e sassofoni tenore e baritono; altri ospiti importanti sono il batterista Brian Blade, il bassista Jesse Murphy e il trombettista Dave Guy. La stessa Jones è invece impegnata alle tastiere (inclusa quella del Wurlitzer) e alle chitarre.
Sin dalla luminosa copertina è evidente come il principale punto di riferimento per Visions sia il vasto panorama musicale dell’America anni ’60: in più di un’occasione, durante l’ascolto, ci si ritrova trasportati nel bel mezzo di una festa di liceo americana, con tanto di festoni e stroboscopio, durante la quale è possibile cogliere reminiscenze di Dusty Springfield, Bob Dylan, perfino dei Beatles. La protagonista indiscussa rimane Norah Jones: è la sua voce, prima di qualsiasi altro strumento, ad aprire l’album nell’intensa All this time, che la vede cantare in un inedito registro acuto. Sono molte, in effetti, le canzoni in cui l’artista spinge la sua voce più in alto di quanto abbia mai fatto, specialmente nelle ardite armonie create in overlay.
Il titolo Visions, ha dichiarato la cantante, è stato scelto poiché molte delle canzoni comprese nel disco sono nate di notte, in quel momento di non-esistenza tra veglia e sonno; in effetti la dimensione onirica è spesso evocata fin dal titolo, in brani come la title track, Swept Up in the Night e I’m Awake. Questo tema è quasi sempre adoperato in chiave metaforica: il sonno può essere una drastica pausa dai problemi piccoli e grandi della vita, oppure un momento di riflessione profonda sui propri problemi. Per contro, non sempre il risveglio è una svolta positiva, ma anche (soprattutto?) una rassegnata presa di coscienza sull’ineluttabilità della vita.
Già, perché Visions è sì un album allegro, ma non disimpegnato: in maniera leggera, quasi subliminale, Norah parla di separazioni, desideri non realizzati, noia e disagio; basti pensare che i testi di entrambi i singoli di lancio sopra citati contengono la parola devil, da intendersi non come entità demoniaca ma come coagulo verbale di tutte le negatività esistenziali. Altre presenze inquietanti si nascondono qua e là, poco più che improvvisi bagliori di suggestione: sono le Visions che danno il titolo all’album. Le inquietudini di Pick Me Up Off The Floor, dunque, sono ancora lì, e forse se ne sono aggiunte perfino di nuove; a cambiare, semmai, è l’atteggiamento nei loro confronti: Norah Jones sceglie stavolta di affrontarle con serenità, brio e ragionevolezza. E un pizzico di ironia.
Visions, insomma, può essere ascoltato in due modi: lo si può lasciar scorrere in sottofondo, godendo della sua apparente spensieratezza, oppure ci si può soffermare sui significati reconditi e sulle minime variazioni sonore e melismatiche, quasi impercettibili ma significative. Prendiamo ad esempio il brano I Just Wanna Dance, il cui testo è composto dalla ripetizione del titolo e poco altro: a ogni iterazione, Norah modula la voce in maniera diversa, crea differenti nuance e conferisce alla frase nuovi significati, che contribuiscono a farla risultare una delle migliori sorprese dell’album.
In un album così compatto e coerente con sé stesso, tuttavia, a brillare sono le uniche due outsider: la già citata Visions e Alone With My Thoughts. La title track è l’unica canzone stripped down del disco: la voce di Norah è accompagnata solo dalla chitarra elettrica e dal pianoforte, che riverberano come in una stanza vuota aumentando il senso di straniamento; l’altro brano è invece il solo a essere cantato in un registro basso, quasi sussurrato, con vaghi accenni gospel in sottofondo. Entrambe le canzoni, nemmeno a farlo apposta, creano atmosfere di consistente malinconia, in netto contrasto col resto dell’album.
Il primo ascolto, probabilmente, spiazzerà chi ha in mente la “solita” Norah Jones; Visions, tuttavia, in un modo o nell’altro è destinato a essere interiorizzato, in forma concettuale o di melodie impresse nella memoria dell’ascoltatore, che finirà per sorprendere sé stesso nell’atto di canticchiarle o ripeterle in loop nella propria testa; ancora una volta, Norah Jones regala al pubblico un album diverso da tutti quelli già annoverati nella sua discografia, eppure, di nuovo, del tutto coerente con la sua continua e evoluzione artistica.