Uccidere personaggi rende una storia matura?
Da Jujutsu Kaisen a One Piece, una analisi scanzonata
Si è recentemente conclusa la seconda stagione dell’anime di Jujutsu Kaisen, realizzata dallo studio Mappa adattando il manga di Gege Akutami, e attualmente in corso. La stagione, di cui abbiamo già parlato in un articolo, ha adattato un arco narrativo generalmente apprezzato nella community dei lettori del fumetto, ovvero l’arco dell’incidente di Shibuya. Per chi non sa di cosa stia parlando, si tratta di un arco narrativo in cui il protagonista Itadori Yuji ed i suoi alleati vengono pesantemente sconfitti, subendo alcune perdite fra personaggi uccisi e altri sigillati.
Le morti non si fermano solo ai “buoni”, ovviamente, e in generale, oltre ai personaggi di spicco da ambo le parti del conflitto, nell’arco di Shibuya perdono la vita numerosissimi umani, ritrovandosi ad essere schiacciati in mezzo al conflitto fra stregoni e maledizioni. La trasposizione di questo arco narrativo era attesa moltissimo da tutti i lettori di Jujutsu Kaisen che tutt’ora la ritengono il picco più alto dell’opera. L’idea di questo articolo nasce proprio da alcune argomentazioni che abbiamo avuto modo di leggere e sentire nel corso dei mesi, e cioè che proprio a causa delle numerose morti, questo arco narrativo consacri l’opera come uno dei migliori battle shōnen sul mercato, nonché un’opera estremamente matura, capace di superare i confini del suo target.
Va sottolineato che questa per noi è solo l’ultima scintilla che ci ha portato a decidere di scrivere questo articolo, in quanto è abbastanza comune imbattersi in persone che sostengono la supposta maturità di una data opera, facendo pesare sulla bilancia il numero di personaggi uccisi. Fra le tante cose lette o sentite negli anni, ricordiamo bene come molti fruitori di Attack on Titan nel corso del tempo si lamentarono di un “impoverimento” dell’opera, quando iniziarono a calare le morti fra i protagonisti. Lamentele che raggiunsero Attack on Titan nonostante il fatto che proprio in quel momento l’autore Hajime Isayama stesse mettendo in scena delle complesse dinamiche sociopolitiche e dilemmi morali che è difficile sbrogliare anche a distanza di quasi tre anni dalla conclusione del manga.
La tesi che vorremmo portare in questo articolo è che non sono affatto le morti di un dato numero di personaggi a poter fare da indice di maturità di un’opera, ma tutta una serie di altri elementi a cui fa capo il modo in cui essi vengono esplicati nell’opera. Al fine quindi di presentare la nostra idea, è nostra intenzione analizzare alcuni avvenimenti proprio nell’arco di Shibuya e altri eventi presenti in alcuni manga dello stesso target, cioè One Piece e My Hero Academia. Così facendo speriamo di portare sul tavolo elementi comuni e facilmente riconoscibili, così da rendere l’intero ragionamento alla portata di qualsiasi lettore che è arrivato qui, magari proprio per l’interesse nei confronti del fumetto di Gege Akutami.
Partendo proprio da Jujutsu Kaisen, un elemento indice di maturità nell’arco di Shibuya è il percorso fatto da Yuji Itadori. Il protagonista del manga va incontro ad una perdita del controllo del suo corpo, con il quale la maledizione Sukuna finisce per distruggere praticamente l’intero quartiere con ogni abitante al suo interno. Di fronte alla consapevolezza di aver in qualche modo fatto parte di un massacro, Yuji crolla, piange e si dispera, cercando comunque di mantenere la lucidità e sperando di poter aiutare i suoi amici. Subito dopo trova infatti uno dei suoi mentori, Nanami, solo per vederlo morire di fronte ai suoi occhi: come se non bastasse, poco dopo avverrà lo stesso per la sua amica Nobara e soprattutto per mano dello stesso assassino, la maledizione Mahito. Sorvolando sulla velocità di reazione da parte di Yuji, ciò che è interessante è come il protagonista debba affrontare una situazione di gravissima crisi e uscirne migliore, in qualche modo degno delle aspettative che lo circondano. E a conti fatti il personaggio ci riesce, mettendo alle strette Mahito e mantenendo un certo grado di controllo anche in seguito.
Il percorso di Itadori non sembra discostarsi particolarmente dallo scolastico viaggio dell’eroe, ma questo non è affatto un problema. L’autore Gege Akutami tratta il suo protagonista con molta umanità, restando pur sempre nell’ambito di un battle shōnen in cui spesso i personaggi assimilano grandi scossoni emotivi in tempi decisamente ridotti. Itadori uscirà dall’arco di Shibuya in parte cambiato, un po’ più cupo e consapevole, insomma il personaggio assimila quanto vissuto e lo riutilizza per affrontare le situazioni future: non si tratta sicuramente dell’arco di crescita meglio scritto in un fumetto, ma nella sua semplicità, l’evoluzione di Itadori è qualcosa che Gege Akutami ha trattato con cura e rispetto.
Dall’altro lato, le tante morti che dovrebbero rendere “maturo” Jujutsu Kaisen, appaiono a loro volta come una serie di elementi narrativi abbastanza semplici e che poco hanno a che fare con una trattazione adulta. Partendo dal presupposto che Jujutsu Kaisen è un manga che fin dai suoi primi capitoli fa dell’uso di violenza esplicita una sua caratteristica – per quanto edulcorata da un tratto poco preciso e dettagliato da parte di Gege Akutami – viene già meno un elemento di sorpresa per le morti dell’arco di Shibuya. In più, la quasi totalità di queste morti non hanno alle spalle una trattazione tematica che porti i lettori a interrogarsi su qualcosa, ma funzionano maggiormente sul mero lato emotivo.
Il lettore – noi compresi – non può che provare pena per i personaggi che vengono uccisi, che ovviamente usciranno così dalla narrazione. Come è ovvio che sia qualsiasi morte di un personaggio caro al lettore, creerà una forte risposta emotiva e se prendiamo come esempio le morti di Nanami e Nobara, servono esattamente a questo scopo, tanto nei confronti del lettore che nei confronti del protagonista. Probabilmente l’unica morte che cerca di portare con sé un peso di significati maggiore è quella della maledizione Jogo, che però porta il lettore a ragionare sulla natura delle maledizioni speciali e sui loro desideri, elemento che di per sé Gege Akutami aveva già affrontato in passato, senza neanche soffermarcisi eccessivamente, e sul quale non userà più di qualche parola anche in questo caso.
Volendo uscire dall’orto di Jujutsu Kaisen, vorrei nominare One Piece di Eiichirō Oda: questo manga, così famoso da non necessitare presentazioni, è anche famoso in modo comico per le poche morti in relazione al numero di capitoli e personaggi. In effetti i decessi in One Piece non sono solo pochi, ma spesso avvengono in flashback di altri personaggi, diventando quindi una specie di scherzo ricorrente per i lettori. Senza voler sminuire le morti in questo manga, che spesso hanno sia una forte componente tematica, affiancata a quella emotiva, anche in questo caso One Piece risulta un’opera matura in momenti in cui, a conti fatti, non viene ucciso proprio nessuno. Fra i tanti esempi disponibili vorrei citare un evento appartenente alla saga di Fishman Island.
Nel finale di saga, il protagonista rischia di morire a causa delle ferite, salvo ricevere una trasfusione che lo salverà all’ultimo secondo. Questa situazione va a richiamare in modo diametralmente opposta la morte di un personaggio importantissimo per la razza degli uomini pesce, ovvero Fisher Tiger: il pirata morirà a causa delle ferite, rifiutandosi di ricevere del sangue umano per una trasfusione, non riuscendo ad abbandonare l’odio per la razza che opprimeva da anni gli uomini pesce. Al contrario il protagonista Rufy si salverà, ricevendo del sangue proprio da un uomo pesce ed ex compagno di Fisher Tiger, ovvero Jimbe. Eiichirō Oda ha reso l’odio razziale un elemento cardine del suo manga da moltissimi anni e, in quel frangente, in modo magari anche un po’ utopistico ma sicuramente efficace, l’autore cerca di comunicare come le barriere dell’odio possano essere abbattute, come il sangue di quelle due razze si possa mischiare. Quello che venne trasmesso fu un messaggio davvero potente, che nulla ha a che vedere con la morte di un personaggio in scena.
Volendo portare un altro esempio che possa avvalorare la tesi di questo articolo, vorrei citare l’arco del festival scolastico presente in My Hero Academia, manga di Kōhei Horikoshi. In quell’arco narrativo l’autore cerca di risolvere il trauma subito dalla piccola Eri, una bambina dotata di un quirk potentissimo e che, per questo, era stata rapita e costretta a subire torture su base giornaliera. Nell’arco narrativo precedente la piccola viene fortunatamente salvata dai criminali che la tenevano prigioniera, ma nonostante il cattivo di turno sia stato riempito di botte come tipicamente avviene in questo genere di fumetti, Eri non riesce ancora a vivere una vita normale e superare la paura del suo aguzzino. Già questo di per sé è un elemento decisamente maturo che va oltre la normale targettizzazione dei battle shōnen, dove spesso i traumi e i conflitti si risolvono nell’esatto momento in cui il cattivo in scena viene malmenato. La bambina verrà così aiutata poco alla volta a vivere normalmente e a godersi un festival, durante il quale con una rappresentazione grafica allegorica ma sicuramente chiara, Eri si libera del fantasma di Chisaki – il suo aguzzino – tornando a fidarsi delle persone, essendo pronta a vivere e anche a usare il suo quirk, a causa del quale era stata rapita.
Quelli portati fino ad ora sono solo due esempi ma ce ne sono numerosi in moltissimi manga ed anche in Jujutsu Kaisen stesso, come abbiamo specificato, grazie ai quali si può assumere che un’opera sia in grado di trattare temi di un certo peso con un buon riguardo, senza che ci sia una morte di mezzo. Sicuramente la dipartita di un personaggio è sempre un elemento capace di scuotere il fruitore, ma come qualsiasi strumento narrativo può essere usato in moltissimi modi, perciò elevare questo unico strumento a massimo indice di maturità di una storia ci sembra abbastanza riduttivo. Va anche considerato come un tema viene trattato, ancor prima di distinguere tematiche importanti da tematiche più frivole: la cura e la maturità di un’opera derivano in larga parte da come chi la scrive decide di approfondire e presentare ciò di cui parla. Nell’ambito dello stesso arco di Shibuya, infatti, la morte di Nanami è una scena con un buon pathos, una costruzione nel lungo periodo e diversi significati: le altre, numerose morti, hanno un peso specifico decisamente inferiore.
Sia chiaro, con questo articolo non cerchiamo di attaccare Jujutsu Kaisen che, anzi, abbiamo davvero apprezzato fino ad ora, soprattutto perché si tratta di un’opera che nel suo dipanarsi non si prende eccessivamente sul serio. L’intento è piuttosto indagare una annosa questione che ciclicamente torna a farsi viva in molte community di lettori o fruitori di anime, dando quello che è il nostro punto di vista: l’idea che il numero di personaggi deceduti in un qualsiasi prodotto di narrativa equivalga alla sua maturità, è sostanzialmente un pensiero sbagliato.