One Piece, la serie Netflix
Articolo a cura di Francesco Ariani, Angelo Giannone e Giuseppe Inella

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One Piece Serie Netflix
One Piece: la serie live action è su Netflix dal 31 agosto 2023

La serie Netflix di One Piece è un tesoro esclusivamente per i fan
Recensione a cura di Francesco Ariani

Il live action di One Piece, composto da 8 puntate da un’ora l’una, è ormai sulla bocca di tutti, fan e non dell’opera creata dall’autore Eiichirō Oda. La polarizzazione che si è andata a creare intorno a questa stagione è un evento fisiologico che si verifica in qualsiasi occasione si parli di questo manga o, altre volte, quando si parla di qualsiasi prodotto che abbia toccato in qualche modo la nostra infanzia. È innegabile che One Piece sia stato un prodotto che ha toccato moltissimi di noi e lo ha fatto per lunghi anni, donando gioia, stupore ed ogni emozione di sorta (a chi più e a chi meno).

Personalmente potrei far risalire i primi ricordi di One Piece a quando le puntate venivano trasmesse su Mediaset, quando da bambino iniziavo a vedere altri cartoni animati oltre al classico Dragon Ball, come praticamente qualsiasi bambino dell’epoca che fosse dotato di una televisione. Ma la mia avventura con One Piece ha effettivamente preso piede proprio con il manga, quando iniziai a leggerlo intorno ai quindici o sedici anni: questi numeri significano che l’opera di Eiichirō Oda mi accompagna ininterrottamente da ben più di un decennio, eppure parlare di questo live action non è difficile a causa della nostalgia, bensì di altri elementi.

Un adattamento è un lavoro che richiede diversi elementi per funzionare in toto, soprattutto se si parla di trasporre un medium come il manga giapponese in un live action che ha come palco la piattaforma di Netflix, rivolta quindi a tutto il mondo e non solo ai fruitori giapponesi o ai fan di fumetti. Qualsiasi live action come quello su One Piece ha quindi il compito non solo di rispettare il materiale di partenza – che non significa seguire pedissequamente il manga da cui è tratto, ma carpirne piuttosto l’essenza – oltre che quello di dover essere una buona serie a tutti gli effetti, ben scritta, girata e insomma ben realizzata, così da essere godibile come prodotto a sé stante e risultare una valida alternativa alla lettura del manga.

È partendo da queste premesse che risulta quindi necessario sottolineare come il live action di One Piece fallisca in buona parte il suo compito, benché abbia avuto successo nell’unico elemento che, a conti fatti, serviva per farlo promuovere dal pubblico, in particolar modo dai fan del manga. Al momento della stesura di questo articolo si sono già susseguiti post, dirette, articoli di altri grossi giornali e come detto in precedenza la polarizzazione è la parola d’ordine di questo flusso di informazioni: i fan stanno adorando visceralmente questo adattamento, mentre la critica specializzata lo sta, almeno per la maggior parte, criticando in quasi ogni suo aspetto.

Lungi dal voler semplicemente entrar a far parte di un meccanismo tossico come quello della polarizzazione degli argomenti, mi preme sottolineare quanto detto in precedenza: il live action di One Piece per me fallisce buona parte dei suoi compiti, sì, ma non tutti. Il successo di questa stagione, come uno sgabello a tre piedi, si fonda su tre elementi cardine.

Foto Netflix / Tudum

In primo luogo gli attori scelti per interpretare l’ampio cast della serie hanno influito sul successo della stessa, tanto per qualità delle loro interpretazioni che per energia mostrata nella maggior parte dei casi, anche e soprattutto fuori dal set nel caso dei membri della ciurma protagonista. Sono numerosi gli attori le cui interpretazioni risultano decisamente azzeccate, fra le quali spiccano assolutamente quelle di Jeff Ward nei panni di Buggy il clown e di Vincent Regan nei panni di Garp. Questi due attori da soli sono stati costantemente capaci di rubare la scena ai protagonisti, in particolar modo il Buggy di Jeff Ward che, grazie anche a delle idee originali sviluppate sul personaggio, ha completamente dominato lo schermo nella seconda puntata. Laddove la bravura degli attori non arrivava, un grosso aiuto è stato dato dall’entusiasmo palpabile di ognuno, che ha portato su schermo la natura dei personaggi cartacei in modo quasi sempre appropriato.

In secondo luogo possiamo dare merito del successo del live action a tutto quello che riguarda la ricostruzione del mondo di Eiichirō Oda, parliamo quindi dei costumi, dei props e dei set fisici. Questa stagione ha un budget esorbitante per puntata, che si aggira intorno ai 18 milioni di dollari e che, probabilmente, saranno stati usati in larga parte proprio per i set. Quello di One Piece è un mondo fantasy variegato e stravagante dove persino le navi dei pirati e dei marines sono sopra le righe. Eppure, a discapito del difficile compito, la serie è riuscita in diverse occasioni non solo a portare su schermo esattamente quello che si era visto nel manga, ma anche ad aggiungere degli elementi. Ad esempio, questo accade nella nave ristorante Baratie, che rispetto alla sua controparte cartacea ha diversi elementi che la rendono più viva e credibile per l’ambientazione di questo live action.

L’elemento più importante per il live action è però uno: il nome stesso dello show. Come già detto un live action ha la necessità capitale di trasporre quantomeno il cuore dell’opera da cui prende piede e questa regola è tanto più vera quanto è viscerale l’amore del pubblico per la stessa. E One Piece, oggigiorno, è quasi un culto: non per tutti, ovviamente: per molti è semplicemente un’opera che fa parte della propria infanzia, ma anche in questo caso l’affetto per la stessa è enorme. Proprio per questo motivo era auspicabile che proprio questo live action non cascasse nella stessa trappola in cui tanti altri erano incappati, come i live action di Death Note e Cowboy Bebop. Questi due live action non hanno solo commesso il peccato di deviare dal materiale originale, ma hanno anche ben pensato di snaturare eventi e personaggi, ottenendo come risultato un completo fallimento.

Sotto questo punto di vista invece il live action di One Piece ha non solo fatto il suo dovere, ma anzi ha anche aggiunto del suo. Le 8 puntate traspongono più o meno i capitoli fino al centesimo, ma senza seguire in modo pedissequo gli eventi, rimescolando le carte a dovere per racchiudere così tanti accadimenti in sole otto ore. Va specificato che almeno all’inizio la serie segue maggiormente l’anime di One Piece e forse in generale è proprio il prodotto animato ad essere la principale fonte di ispirazione del live action, ma in generale gli sceneggiatori sono riusciti a prendere i vari elementi della storia a loro disposizione e riordinarli in un puzzle nuovo e interessanti.

L’articolo prosegue con elementi della trama.

Il Buggy della serie è più dark e pericoloso, non un clown che bullizza i cani randagi bensì un vero e proprio criminale patentato con una carenza patologia d’affetto, al punto da incatenare una cittadina nel suo tendone da circo per avere applausi allo schioccare delle sue dita. Garp e Coby seguono una strada diversa dal manga ed il loro rapporto viene subito consolidato. Il viceammiraglio, nonché nonno di Rufy, ricopre un vero e proprio ruolo archetipico facendosi carico del ruolo di cattivo dietro le quinte per tutta la stagione, solo per rivelarsi infine il classico burbero simpaticone che tutti noi conosciamo. Gli esempi sono numerosi, ma i cambiamenti apportati erano necessari su più livelli e hanno in buona parte funzionato. A ciò si aggiunge che – nonostante il fatto che l’età riportata nella scheda della serie sia 13+ – il target della stessa rimane per molti versi “infantile”, e ciò ha quindi richiesto necessariamente un certo registro registico e di scrittura che è stato ampiamente rispettato, pur mantenendo molte delle scene più violente. Vien da sé comunque che non è mai il target a decretare la maturità di un’opera, come ci hanno insegnato proprio One Piece e tanti altri manga commercializzati come shōnen.

Questa lunga serie di pregi che ho messo in fila forma insomma la spina dorsale di questo live action e, a conti fatti, fanno tutti capo ad un semplice concetto: rispettare il materiale di partenza. Questa esigenza è di per sé il punto di partenza di una trasposizione, ma è invece diventata l’obiettivo del live action di One Piece e praticamente l’unico vero pregio dello stesso. Se infatti fino ad ora ho elencato i vari meriti della serie, quasi andando in apparente contraddizione con le premesse dell’articolo, ognuno di questi aspetti ha dei risvolti estremamente negativi, oltre ai quali si vanno ad aggiungere una quantità di difetti tecnici difficili da contenere tutti in un semplice elenco.

Per quanto fosse doveroso lodare gli attori più capaci del cast, va detto che per troppi di loro l’unica cosa che contava fosse l’entusiasmo. Tante, troppe volte durante la visione della stagione l’impressione era quella di vedere attori bidimensionali, talmente concentrati nel compito di dover assomigliare al personaggio interpretato da dimenticare di poter fare più di due espressioni. Basti pensare ad alcune delle scene madri della stagione, quella in cui Zoro viene battuto nel finale della quinta puntata e quella in cui Nami si accoltella il tatuaggio della ciurma di Arlong nella settima. Nel primo caso Zoro, almeno nel manga, si abbandona per l’unica volta ad un intenso e sincero pianto, in una delle scene più importanti in ben mille capitoli di fumetto per il personaggio. Mackenyu Maeda, che si dimostra sicuramente abile negli stunt e nei momenti in cui deve far trasparire tutta l’arroganza dello spadaccino che interpreta, è riuscito in pochi istanti a distruggere completamente quella scena con movimenti meccanici e un probabile tentativo di pianto in camera andato completamente a vuoto.

Allo stesso modo l’interprete di Nami, Emily Rudd, è sicuramente riuscita a portare su schermo la simpatia e la scaltrezza della piratessa, così come le ansie derivanti dal suo difficile ruolo a metà fra la ciurma di Arlong e quella di Rufy. Ma quando si è arrivati alla scena più importante, quella in cui anche lei si abbandona alle lacrime accoltellandosi il tatuaggio che la collega al suo aguzzino, per poi chiedere aiuto al suo capitano, l’effetto è quantomeno forzato e caricaturale. In entrambi i casi le scene sono state assolutamente sfavorite da una regia e da una messa in scena quasi amatoriale. In entrambi i casi, ma soprattutto nel primo, l’idea peggiore dei registi è stata quella di provare a copiare esattamente le tavole del manga, scordandosi del tutto che due media così diversi per modalità di fruizione necessitano quindi di idee diverse. Nel caso della scena di Nami invece tutto è stato peggiorato da una illuminazione quasi inesistente, stacchi di camera sì comprensibili per il target ma comunque orridi e l’uso di trucco peggiore possibile persino per uno show per più giovani: in uno show in cui proprio due puntate prima un uomo presenta un ampio taglio da una spalla al costato opposto, è assurdo che una coltellata autoinflitta ad una spalla si riduca ad essere una striscia invisibile di marmellata di ciliegie.

Questi sono solo due esempi lampanti dei molti presenti in tutta la stagione, dove soprattutto la regia riesce a peggiorare scene che potrebbero anche essere godibili. Trovo ancora incomprensibile perché la maggior parte delle volte in cui un personaggio parla la telecamera si produca in zoom focali sui volti che non hanno senso di esistere, così come spesso molte sezioni sembrano girate con delle GoPro, scelta che potrebbe essere innovativa se usata per un film intero, ma che usata a caso riesce solo a creare confusione e distogliere l’attenzione. Si potrebbero anche accusare i numerosi stacchi di montaggio non solo mal eseguiti ma anche tanto disturbanti da rendere indigeste alcune scene, come un monologo dell’uomo pesce Arlong.

Se prima parlavo bene proprio dei props, delle ambientazioni e della CGI, citando ad esempio il set del Baratie, è anche vero esattamente il contrario. Fin dalla prima puntata si può avere un assaggio di quanto plasticoso e poco credibile sia il mondo del live action di One Piece, fra attori che sembrano più simili a cosplayer, a causa di costumi per niente convincenti e foderi di spade che si piegano durante una capriola. L’apice si raggiunge con il frutto Gom Gom del protagonista che avrebbe ovviamente richiesto un’enorme dose di CGI per essere portato a schermo e i cui effetti sul corpo di Rufy appaiono quasi sempre come delle texture stiracchiate alla bell’e meglio per rendere l’effetto dell’allungamento del corpo.

Questi elementi rendono il live action grottesco nel senso sbagliato del termine, astraggono completamente il fruitore dal suo stato di doverosa attenzione sugli avvenimenti e gli ricordano che, a conti fatti, sta osservando solo degli attori che fanno finta di picchiarsi per il suo divertimento. Proprio a tal proposito è impossibile non parlare proprio dei numerosi stunt presenti nella serie: One Piece come quasi ogni shōnen vive di numerosissime battaglie che, nel live action, sono state trasposte in modo decisamente confusionario. Anche questa volta la colpa andrebbe attribuita nella sua interezza alla regia e al montaggio, che ha tarpato le ali a dei combattimenti che anche dopo molte visioni appaiono convincenti solo in parte e proprio a causa di chi è presente dietro la telecamera, non degli attori e degli stuntmen che invece dovrebbero esseri prodotti in prodezze atletiche non di poco conto.

Se si analizzasse ogni puntata, come spero sia comprensibile, si troverebbero pregi e difetti di ogni sorta, ma il problema vero e proprio è che per ogni pregio scovato uscirebbero fuori almeno tre difetti. La serie abbonda di chicche che molti fan stanno considerando come attenzione ai dettagli: ad esempio, costumi ispirati a cover speciali del manga, piccoli riferimenti al futuro della serie o una delle mie preferite, la famosa canzone del sakè di Binks cantata dalla ciurma di Shanks. Ciononostante è quasi impossibile non considerare proprio questi elementi più un modo per solleticare l’entusiasmo dei fan, il vero obiettivo della serie, che attenzione ai dettagli, almeno dal momento in cui proprio quando la serie dovrebbe davvero porre attenzione ai dettagli, non lo fa, come con l’orecchio di Buggy che sparisce dalla seconda alla terza puntata senza sapere come e quando questo avvenga, per diventare poi una chiave di volta della narrazione pochi episodi più avanti.

A quanto detto in questo articolo si potrebbe contestare che l’importante fossero solo e soltanto la scrittura e i personaggi, le loro interpretazioni e l’alchimia nata dalle loro interazioni, mentre tutto il resto non conta niente o al più può essere migliorato nella stagione seguente. Personalmente dissento su tutta la linea e ritengo che anche una serie con una cattiva scrittura possa migliorare in seguito e che alla fine dei giochi quando si vede un prodotto televisivo, o fumettistico che sia, e che fonde quindi scrittura e abilità tecniche nel disegno, nella regia e tanto altro ancora, l’importante è che ogni aspetto collabori senza prevalere sul resto, in una armonia reciproca che spinga la qualità del prodotto sempre più in alto.

Alla luce di tutto quello che è stato detto è da fan che sottolineo quanto, alla fine, mi sia goduto queste otto puntate con la nostalgia che ogni tanto faceva capolino e, unitamente alle scene, mi faceva scendere qualche lacrima. Ma sarebbe oltremodo disonesto attribuire ad un elemento che niente ha a che fare con la realizzazione di questa serie i meriti per decretarne la qualità. Il live action di One Piece è a mio avviso un prodotto che come unico obiettivo si è posto quello di accontentare una certa fetta di fan, quella che a differenza di chi scrive questo articolo non ha problemi a definire un prodotto in relazione alla propria nostalgia. Per tutto il resto del pubblico, su Netflix sono presenti tanti show estremamente validi sotto ogni punto di vista che meritano il vostro tempo, anche alcuni tratti da o ispirati a fumetti e videogiochi.

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Il mio tesoro? Prendetelo pure se volete, cercatelo! Chissà se qualcuno di voi lo troverà!!!”

Recensione a cura di Giuseppe Inella

Quante volte noi appassionati di One Piece abbiamo sentito questa frase negli ultimi vent’anni? Quante puntate abbiamo visto in TV al ritorno da scuola, seguendo l’incredibile avventura di Monkey D. Luffy, per noi italiani, “Rubber Cappello di paglia”?

One Piece è tra i più grandi fenomeni di cultura pop del ventunesimo secolo. Più di mille capitoli del manga, altrettanti episodi dell’anime, action figure, special televisivi, lungometraggi animati, videogiochi e chi più ne ha più ne metta. Quest’opera sta accompagnando intere generazioni durante l’arco della propria vita. Personaggi come Luffy ti entrano nel cuore, come se li conoscessi personalmente, per cui guardando le otto puntate di questo live action seppur qualche imprecisione proprio non sono riuscito ad essergli ostile.

L’articolo prosegue con elementi della trama.

La serie live action di One Piece mi è subito entrata nel cuore. Vedere i personaggi che durante l’infanzia e l’adolescenza mi hanno fatto emozionare, commuovere e divertire è stato entusiasmante. Nonostante ciò, ho storto diverse volte il naso su alcune scene (banalità, sia chiaro), però per un fan marinato come me non vedere la scena di quando Luffy salta dalla torretta della marina di Shells Town con le spade di Zoro prima di liberarlo o quando Sanji salutando Zeff non si inchina in lacrime per ringraziarlo di tutto quello che ha fatto per lui è stato un po’ deludente. Ma al di là di queste piccolezze, quest’opera mi ha veramente emozionato. Durante diverse scene non ho potuto fare a meno di avere gli occhi lucidi.

Netflix ha avuto l’onore ma sopratutto l’onere di cimentarsi in un’impresa quantomai ardua. La storia recente infatti ci ha insegnato che trasposizioni in live action tratte da fumetti sono armi a doppio taglio. Perché se da un lato portano grande entusiasmo, dall’altro, quando attori in carne ed ossa si calano nelle vesti di personaggi immaginari necessitano di un grande cambiamento, perché chiaramente il linguaggio espressivo degli attori ha dei limiti, cosa che non ha invece una trasposizione animata.

Ma come si spiega il successo di One Piece rispetto a tutti i precedenti tentativi di trasporre in live action un fumetto? La risposta è: il maestro Eiichirō Oda. Il celebre autore di One Piece ha personalmente supervisionato il progetto, ha posto il suo veto su determinate riprese, ha scelto il cast degli attori rispettando le nazionalità da lui stesso rivelate all’interno delle SBS. Insomma ha seguito passo passo la realizzazione dell’intera opera. Il risultato è che il live action sembra uscito direttamente dalle pagine del manga. Nel bene e nel male.

Personalmente ritengo infatti che anche il manga – per quanto osannato – non sia esente da forzature di trama e parti incoerenti, che però con una serializzazione ventennale alle spalle è del tutto comprensibile. Ma proprio questa lunga serializzazione ha portato a far si che determinate cose fossero già pienamente coerenti all’interno del live action. Il lavoro che è stato fatto sulla trama infatti è un lavoro intelligente, che si adatta, si trasforma e ben si presta al cambiamento, discostandosi in diverse sequenze della storia raccontata nel manga e che prova a raggiungere una nuova forma. Emblematica è la presenza del vice ammiraglio Garp sul patibolo con Gol D. Roger e l’uso esplicito dell’Haki del Re da parte di Shanks quando salva la vita a Luffy. Cose che all’inizio del manga probabilmente Oda non aveva minimamente pensato e che lo hanno costretto poi ad adattare la trama, per avere quanto meno un po’ di coerenza.

Come dicevo i difetti – seppur trascurabili – ci sono, è innegabile, ma ritengo che non siano gravi. Omettendo infatti indiscutibili difetti nella messinscena, non vengono fatti errori sui momenti chiave della storia. I momenti memorabili che si sono incisi dentro i nostri cuori, “di caparbi e furbi predatori” ci sono tutti, e sono riusciti allo stesso modo a farmi emozionare, a trasmettermi i valori dell’amicizia e dell’inseguire i propri sogni a qualunque costo.

Circa il comparto grafico non nego che inizialmente l’approccio visivo risulti abbastanza “stuccoso”, in particolar modo nella realizzazione degli Uomini Pesce, che sono risultati, personalmente, un filo “plasticosi”, ma in generale tutta i costumi si trascinano fino all’ottava puntata con un effetto “cosplay”. I costumi infatti non sembrano “vissuti”, avrei voluto vedere indumenti rovinati dalla salsedine, i pantaloni logori e le scarpe sporche (o infradito!). Onestamente vedere Garp con le scarpe bianche, sempre tirate a lucido, o Helmeppo con le scarpe da ginnastica è innaturale!

Tra gli altri elementi negativi, ci sono sicuramente gli effetti speciali. In alcune scene è innegabile l’investimento di risorse. In altre, però, è altrettanto evidente il poco tempo a disposizione, molto probabilmente a causa del COVID-19, per poter migliorare il risultato finale. E non sto parlando della resa dei “superpoteri” o di particolari mostri marini, perché tutto sommato la CGI è stata gradevole, molto più di certe serie Marvel trasposte sulle piattaforme di streaming. No. Parlo d’intere sequenze d’azione, come ad Arlong Park o alla base di Shells Town.

Altro fattore che non mi ha pienamente convinto è stato il comparto musicale. A fare grande l’anime di One Piece sono state anche le colonne sonore azzeccatissime in momenti chiave della storia e la colonna sonora di Sonya Belousova e Giona Ostinelli è stata onestamente molto poco incisiva. L’unico picco musicale è rappresentato dal brano composto per la scena in cui la ciurma prende il largo a bordo della Going Merry. Avrei tanto voluto ascoltare con tutto il cuore la classica colonna sonora durante la “camminata” verso Arlong Park, ma ahimè nulla. Quello che resta sono ripetizioni e arrangiamenti poco originali della stessa cosa. Un gran peccato!

Ma dopo questa carrellata di considerazioni negative vi rincuoro dicendo che grazie alla grande anima di questo show ci si abitua, arrivando addirittura ad apprezzarla in molte scene. Un’anima incarnata soprattutto dai cinque protagonisti. Gli attori che interpretano Luffy, Zoro, Nami, Usop e Sanji sembrano prendere vita dalle tavole del manga grazie alla loro capacità di cogliere l’essenza dei personaggi. Iñaki Godoy ha una mimica facciale perfetta per interpretare Luffy, le gag tra Mackenyu e Taz Skylar rispecchia in pieno il rapporto tra Zoro e Sanji. La scaltrezza di Emily Rudd si adatta alla perfezione alla “prima” Nami e la simpatia di Jacob Gibson riflette alla perfezione il carattere di Usop.

Netflix ha adattato sul piccolo schermo i primi 11 volumi del manga, dall’inizio dell’avventura fino all’arco narrativo di Arlong Park, riuscendo a coprire quasi tutta la saga del Mare Orientale. Nel corso di otto puntate, malgrado i tagli, per compattare il racconto, visti i tempi biblici di Oda, ben si riassumono le parti salienti della storia, riuscendo a elaborare una trama orizzontale (vedi le vicende inedite di Koby) che rende la storia molto gradevole.

Malgrado tutto, è un prodotto che credo sia piaciuto al grande pubblico. Testimoni di ciò sono le discussione e le analisi che stanno tempestando il web e i social network.

Ma la vera domanda che molti si stanno facendo è: che strada intraprenderà la serie?

Ad oggi non lo sappiamo, tutto è legato al successo che riscuoterà, ma per chi ha già visto tutta la prima stagione di One Piece nella scena post-credit viene introdotto Capitan Smoker, un marine particolarmente potente il cui frutto del diavolo, gli permette di trasformarsi in fumo. L’introduzione di questo personaggio rende manifesto che un’ipotetica seconda stagione inizierà a Rogue Town, con la ciurma di Cappello di Paglia diretta verso la Rotta Maggiore attraverso la famosa Reverse Mountain.

 

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One Piece, la serie Netflix: tra hype e caos di comunicazione
La storia dall’annuncio all’uscita, a cura di Angelo Giannone

One Piece è un manga che ha bisogno di ben poche presentazioni: l’opera di Eiichirō Oda è il fumetto di un singolo autore più venduto di sempre, con oltre 500 milioni di copie. Il 31 agosto 2023 debutta su Netflix la prima stagione dell’adattamento live action del manga, sempre ad opera di Netflix: una data attesa sin dal 2016, anno di annuncio del progetto.

One Piece Serie Netflix
il poster della serie live action di One Piece, su Netflix dal 31 agosto 2023

Il ricordo di Death Note, adattamento cinematografico dell’omonimo manga, pubblicato da Netflix nel 2017 e fallito praticamente in ogni aspetto, potrebbe essere sufficiente a scoraggiare verso questo tipo di produzione. Tuttavia, per One Piece le premesse sembrano diverse: un ampio coinvolgimento dell’autore ed un budget record, quantomeno per qualche anno fa. Dov’è la fregatura? In parte nel coinvolgimento dell’autore, in parte nel budget alto, che – come abbiamo visto negli ultimi tempi – non è necessariamente sinonimo di qualità.

Quindi, perché essere ottimisti verso questa serie Netflix di One Piece? A conti fatti a causa di dichiarazioni, fino ad un certo punto, molto oculate. Lungi dal voler creare una cronistoria, negli anni se ne sono succedute molte sul coinvolgimento di Oda in diverse componenti della produzione, come il casting o la visione preliminare del girato. Per di più, fino a tempi relativamente recenti la serie è stata avvolta da un alone di mistero, stimolando speculazioni e discussioni, alimentando quella hype culture di cui ormai il pubblico si nutre.

Le informazioni veramente consistenti sono arrivate praticamente solo nell’ultimo anno e mezzo. I primi membri del cast sono stati rivelati nel novembre 2021 ed il primo teaser è stato pubblicato solo nel giugno del 2023. Nel bene e nel male, era chiaro che qualunque primo teaser di One Piece fosse stato rilasciato avrebbe generato un enorme rumore sul web. Averne uno, il primo in assoluto, praticamente a due mesi dall’uscita, è sicuramente utile per trainare il pubblico in maniera più efficace verso la pubblicazione. Specialmente nel mondo del web, molte produzioni vengono fagocitate, discusse e dimenticate nel giro di pochissime settimane, per cui concentrare il clou della campagna marketing a ridosso dell’uscita, con un continuo bombardamento di materiale, è una scelta utile in termini di attenzione sul prodotto.

Questo ragionamento potrebbe valere per molti adattamenti simili, ma la fama del prodotto in questione è enorme, multigenerazionale ed in grado di far mescolare due fette di pubblico solo in parte sovrapponibili. Da un lato l’enorme fandom mondiale di One Piece viene trainato verso il mondo delle serie TV made in Netflix, dall’altro il pubblico generalista delle serie TV viene avvicinato al manga (o più probabilmente anime), con cui magari può aver avuto a che fare in tenera età.

Parlando proprio di età, è bene chiarire alcuni punti. Il manga di One Piece si inquadra nel target (non genere) shōnen, ossia si riferisce ad un pubblico tendenzialmente maschile di età compresa tra 12 e 18 anni. Il suo adattamento animato, di più larga diffusione specialmente in occidente e nei primi anni zero, è invece riferito ad una fascia di pubblico di età più bassa. Quindi, a quale target ha pensato Netflix nel produrre la serie? La risposta non può essere “entrambi”. Nelle sue prime battute il manga possiede degli exploit di violenza sia visiva che concettuale che nell’adattamento animato sono rimossi o modificati, proprio perché inadatti ad un pubblico di bambini.

La risposta a questa domanda è nebulosa: nella scheda della serie su Netflix l’età riportata è 13+ (a causa di scene e linguaggio inadatti ai bambini), quindi in linea con il manga; nei generi è etichettata come “TV da guardare insieme alla famiglia” e sul canale YouTube di Netflix Italia è mostrata nelle novità di agosto nella sezione “Kids & Family”. Guardando altrove nel mondo, nello specifico negli Stati Uniti, la risposta sembra più univoca: rating TV-14, con Netflix stesso che avvisa gli spettatori su “violenza, linguaggio, nudità, autolesionismo, fumo”. Per chi conosce la storia di Sanji e del ristorante Baratie è chiarissimo a quali eventi si faccia riferimento con queste parole, eventi tutto fuorché adatti ai bambini. Tuttavia, sempre nel panorama statunitense, One Piece non è pubblicizzato come prodotto per bambini. Si potrebbe concludere che la confusione sia solo italiana, ma è solo una delle tante crepe nella recentissima comunicazione di Netflix su questo progetto.

All’avvicinarsi della data di uscita della serie è corrisposto un aumento di sensazionalismo e mitizzazione attorno al progetto, unita ad un bizzarro modo di “mettere le mani avanti” su alcuni aspetti e di focalizzare l’attenzione non sull’opera, ma sulla produzione e su Oda stesso.

Un post pubblicato su Instagram dalla pagina (ufficiale) onepiece_staff riporta una lettera di Oda in cui l’autore lascia intendere che nella serie sono stati effettuati dei re-shoot perché alcune scene non lo convincevano appieno; nella stessa lettera però afferma che ci sarebbero stati tagli e cambiamenti rispetto al manga (com’è giusto e logico che sia). In un altro post della stessa pagina, Oda parla invece di come Netflix gli avesse promesso di non lanciare la serie finché non fosse stato soddisfatto. Una dichiarazione sì credibile ma che lascia perplessi, se si pensa agli investimenti in questione e a quanto dei re-shoot ed eventuali rinvii della serie aumentino i costi di produzione.

Anche volendo prendere per buone tutte queste informazioni, comunque non combaciano con altre dichiarazioni, sempre dello stesso Oda. Sono infatti presenti, sul canale YouTube giapponese di Netflix, una coppia di brevissimi video dove Oda e il team di produzione statunitense di Netflix si scambiano poche righe sul risultato del live action. Qui il mangaka, nel primo video, afferma (riassumendo) che “bisogna considerare il peggior scenario possibile”, mentre la produzione afferma di non essere del tutto soddisfatta. Questo sembrerebbe appunto un modo, circostanziato al Giappone, di parare un eventuale colpo che potrebbe arrivare in caso di delusione da parte del pubblico. Suona molto come un avviso per i fruitori e soprattutto per i fan di One Piece.

Passando ad altro, in un articolo di themarysue.com l’autrice riferisce di una intervista al direttore responsabile delle serie originali di Netflix, Ted Biaselli. Questi di fatti conferma il ruolo attivo di Oda nella produzione, la sua partecipazione in fase di casting ed altri dettagli del processo produttivo, come la visione di parti del girato, ma non conferma il millantato potere di veto. Nello stesso articolo, l’autrice riporta di aver parlato con Emily Rudd (nel ruolo di Nami) e del suo incontro con Oda.

Il video di Netflix nel suo complesso, peraltro, punta molto a far emozionare il fruitore, con primi piani sulla commozione dell’attore, spacciando per un primo incontro quello che a conti fatti non sembra esserlo. Ma anche volendo attribuire la cosa ad una confusione dell’attore e quindi agendo in buona fede, è chiaro come le ultime tendenze nella campagna marketing di One Piece stiano centralizzando l’attenzione su Oda, sul suo ruolo e la sua figura, più che sulla serie stessa. È stato anche pubblicato, sempre sul canale YouTube di Netflix, un video “dietro le quinte” della serie, che pone quindi il focus sulla produzione della stessa, ma non sul suo contenuto.

Il punto di questo minestrone comunicativo è non riuscire a cogliere delle intenzioni sempre chiare e intellegibili su quello che sarà il prodotto finale per i fan.

Fan che, oltre ad essere numerosi, sono da sempre pendenti dalle labbra di Oda. Quel che è misterioso affascina, il manga di One Piece vive di questo e così il suo autore, che non si mostra mai in volto e come molti suoi colleghi è evasivo, comunicando solo tramite canali molto filtrati e indiretti (ad esempio la sezione domande e risposte dei volumi cartacei del manga, le famose SBS). Avendo cementificato in oltre 27 anni un successo monumentale, Oda è (in maniera fisiologica) visto da molti come un idolo e ogni sua dichiarazione smuove sempre le masse e le discussioni. Poco importa quanto alcune dichiarazioni si rivelino poi inesatte se non proprio fuorvianti, ogni volta il ciclo ricomincia daccapo. Questo stesso fandom idolatra poi l’opera stessa, al limite a volte del fanatismo religioso e della completa ignoranza dei meccanismi stanti alla base della scrittura di qualunque storia, su qualsiasi medium essa si racconti.

Tale assemblaggio di persone sono quelle che peraltro fin dal primissimo annuncio hanno osteggiato il live action, ritenendo impossibile tale adattamento e pensando ad un esito inevitabile e catastrofico. Un po’ rassomiglianti ad una folla pronta con torce e forconi a difendere acriticamente la propria opera del cuore, Netflix ha tentato in tutti i modi di placarli proprio tirando in mezzo il loro idolo, per quanto i trailer erano e siano rimasti divisivi. Allo stesso tempo però la stessa Netflix non si è sbilanciata in maniera eccessiva sulla serie, temendo ovviamente il contraccolpo che potrebbe ricevere da una tale massa di individui.

Considerando i trailer, se delle critiche legittime possono essere poste ad alcuni aspetti tecnici qui mostrati, come regia, fotografia ed effetti speciali, altre vanno dal pretestuoso al totalmente insensato. Ad esempio, Rufy (Iñaki Godoy) che indossa scarpe al posto dei sandali, Sanji (Taz Skylar) senza il sopracciglio arricciato, Usopp (Jacob Romero Gibson) senza il naso lungo. Porre critiche simili presuppone non avere idea di come questi elementi impattino sulle performance degli attori e di quanto risulterebbero ridicoli in un live action. Infatti, le calzature di Luffy avrebbero reso gli stunt eccessivamente pericolosi ed il sopracciglio, come il nasone, avrebbero soppresso l’espressività degli attori. Il punto della questione è come Netflix sia arrivata a dover dichiarare quanto affermato sulle scarpe di Luffy, nel tentativo di placare una lamentela non avente in principio senso di esistere. Una lamentela rumorosa e portata avanti da numerosi individui, per dei sandali.

Tutto questo non vuol essere un (pre)giudizio sulla serie, ma un tentativo di comprendere meglio qualcosa prima dell’uscita, senza eccessi da fandom, in un senso o nell’altro. La discussione sul contenuto, invece, sarà altrove.

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