Soundtrack e anime: il binomio inconfondibile che fa la differenza

È noto come un certo Oriente prediliga di norma l’estetica sussurrata, minimalista, dove l’esplodere delle contraddizioni cova nell’allusione più che nella sottolineatura.

In letteratura è del resto il ‘non detto’ a conferire il fascino più duraturo ai libri.

E l’immaginario con cui si viene a contatto attraverso la cultura nipponica delinea sottotraccia il ritratto di un Paese estremamente tecnologico eppure spesso assai a disagio con i propri sentimenti.

Suggestivo scoprirlo attraverso manga e anime, perché negli ultimi decenni si deve a questi ultimi il vistoso aggiornamento delle classiche nozioni di ‘fumetto‘ o ‘cartone animato‘, generi ormai prepotentemente lontani da una dimensione ritenuta esclusiva del mondo dell’infanzia, basti rammentare le produzioni di Gō Nagai, Reiji Matsumoto, Riyoko Ikeda, Hayao Miyazaki.

Gō Nagai a Tokyo nel 1987. Foto di Sally Larsen, CC BY-SA 3.0

La visionarietà di simili artisti non è sfuggita neppure all’Italia, i loro caratteri distintivi si imponevano come troppo rivoluzionari, e così abbiamo visto alternarsi sui nostri schermi televisivi, dagli anni Settanta in poi, fantasie visive alla stregua di audaci riletture del mondo, che si trattasse dei mecha araldici di Nagai – col loro tipico, belligerante personificare le singole armi sferrate contro il nemico – o delle algide creature femminili di Matsumoto, la cui geniale grazia proiettò imperituri sogni d’avventura, vedi il viaggio sull’Orient Express o la pirateria picaresca, tra le pieghe infinite del cosmo.

Lo slancio bellico e l’archetipo della donna alla ricerca di se stessa vennero poi a convergere nell’icona dell’amazzone, che già vantava nobili antenate, da Camilla a Clorinda, Bradamante, Giovanna d’Arco: Lady Oscar (il manga è del 1972, del 1979 la serie animata) si fregiò d’un nome mascolino al massimo grado per infrangere il tabù transgender e bypassò l’innocenza da fiaba della Principessa Zaffiro, uscita fuori anni prima dalla matita dell’istrionico Osamu Tezuka, anticipando l’erotismo alchemico e ambiguo di un’altra fanciulla in divisa: Utena, la giovanissima rivoluzionaria dall’improbabile chioma rosa.

Osamu Tezuka (1951). Foto di ignoto (da “Showa Day by Day” volume 9, Kodansha Co., 1989. 『昭和 二万日の全記録 第9巻』講談社、1989年、p.239), in pubblico dominio

A consacrare lo sdoganamento del cartone animato d’Oriente fu però infine l’approdo al cinema dei capolavori di assoluta poesia del più conosciuto disegnatore del Paese del Sol Levante, Hayao Miyazaki, che le sfumature più tenere e inattese dell’infanzia e della femminilità acerba ravvivò con dettagli realistici e magici insieme, cifra del suo leggiadro, inconfondibile stile.

Hayao Miyazaki. Foto Flickr di Thomas, CC BY-SA 2.0

Poiché soffermarci sulla necessità di ‘vederli’ pare abbastanza superfluo, per cogliere il fascino duraturo di taluni anime suggeriamo qui di passare all’esperienza integrale dell’‘ascoltarli’: le soundtrack di molti di essi si possono infatti annoverate tra le produzioni musicali più belle tout court. Poiché sarebbe quasi impossibile offrire una ricognizione completa della pluralità di autori e generi che hanno accompagnato le immagini animate, spaziando dall’epic music all’electro pop, dall’industrial alla dark ambient, ci limiteremo a qualche accenno.

Per chi voglia lasciarsi andare alla rivelazione tuffandosi di testa, imprescindibile l’ascolto di Yuki Kajiura, autrice di brani stupefacenti per le serie Bee Train, ovvero lo storico trittico delle girls with guns che apre il terzo millennio (Noir, Madlax, El Cazador de la Bruja), oltre alla colonna sonora di un gioiello psicoanalitico come Puella Magi Madoka Magika (2011).

Selezioniamo una scena su tutte, ovvero lo sfondo desolatissimo, in puro Edgar Allan Poe, dove Mireille raggiunge Kirika per compiere la sua vendetta, e la suspense si rapprende all’improvviso, essendo Noir non solo il titolo dell’anime, bensì il tono angosciante, true blue, di tutta l’atmosfera.

Quando l’amore tra le protagoniste si è ormai rovesciato in odio, e la sfida incombe fatale, i secondi all’improvviso si dilatano, dapprima scolpiti dal leitmotiv musicale della serie, una nostalgica variazione da Čajkovskij al limite del plagio: Kirika supplica Mireille di ucciderla, l’altra tentenna, alla fine alza la pistola, prende controvoglia la mira, ma non riesce a spararle, le volta le spalle, rimanda la decisione, camuffando l’estrema sofferenza nel disprezzo.

E a questo punto, mentre lo schianto sentimentale implode, si innalza improvviso un canto mistico, rigorosamente in latino: Dona nobis pacem… e la tensione s’infrange, collassa.

Ecco, se dovessimo indicare anche solo per mero diletto didattico che effetto può fare la musica giusta al momento giusto, questa scena di Noir sarebbe ideale. L’immissione incongrua, nella sua purezza, di un canto cristiano il cui riferimento palese è al celebre Agnus Dei, arriva talmente potente e irrelata nel confronto aperto tra le due assassine da creare un violento cortocircuito emotivo: il senso di colpa e l’impossibile perdono, inesorabilmente avvinti, ascendono a un piano religioso in cui tuttavia non c’è alcun spazio per la preghiera, e dunque nessuna, disperata catarsi. Kajiura adora tra l’altro lo slancio metafisico, e mescola i timbri, il violino accanto al sintetizzatore, miscela le lingue, giapponese, italiano, latino, talora storpiandole, o persino inventandole.

Yuki Kajiura. Foto Erika Rodriguez, CC BY-SA 2.0

Infrazioni e sprezzature che più che stridere accrescono il senso dell’evocazione solenne, arcaica.

Non sempre l’equilibrio è comunque raggiunto: ne Il giardino dei peccatori (The Garden of Sinners, versione originale Kara no kyōkai, 2007) lo Shiki’s Theme è di una limpidezza così prodigiosa e perfetta (le visualizzazioni su YouTube superano i cinque milioni, ma del brano esistono più arrangiamenti) da imporsi per indiscussa supremazia artistica addirittura sul character design dell’omonima protagonista e sulla fluidità dell’animazione, tra le più eleganti.

Sovrana magnificenza nelle scene d’azione si ritrova anche in un frequentatore dei generi più movimentati, Toshihiko Sahashi: calda e avvolgente la sua soundtrack di Simoun (2006), uno degli anime più intensi prodotti negli ultimi anni, distopia gender fluid, il cui simbolismo adulto è così conturbante da averlo imposto come must di culto, nonostante le rarefatte attinenze con la categoria dello yuri in cui spesso viene annoverato.

Il celebre tango – che della colonna sonora è il cuore – non teme rivali, persino a scomodare il più ispirato Piazzolla: viene da associarlo per sempre all’adolescenza, alla perdita immedicabile che nel ricordo, anche doloroso, al pari d’una danza appassionata, essa ci lascia, svuotandoci dell’illusione che solo la musica cattura e conserva per sempre.

Per arrivare ai giorni nostri, visto il risalto garantitole da Netflix, citazione obbligata merita Violet Evergarden (2018): l’anime è assolutamente traballante, con paurosi buchi narrativi e una implausibilità da record, la protagonista è però carismatica, coniuga il pathos dell’orfana alla malinconica estetica cyborg-vittoriana, fino a prospettarsi quale perfetta nipotina di carta di Emilie Autumn. Tra i due cd della soundtrack c’è un abisso, non chiedetemi perché.

Per strazio, e loop persecutivo, visto che le note si piantano in testa più decise di un paletto di Van Helsing nel petto di Dracula, merita almeno un meditato ascolto l’ipnotica, regressiva nenia di The Ultimate Price, utilizzata come sottofondo della scena più drammatica dell’intero anime (nell’episodio nono). Il brano parte in sordina, così scontato e trasparente che quando lo registriamo consapevolmente è già troppo tardi: lei ci perderà entrambe le braccia, e non solo; voi ci perderete un brandello di cuore perché ‘cane del maggiore’ non è solo un nomignolo poco elogiativo per Violet, visto che in tale occasione saprà diventarlo davvero.

Se qui però il patetico è patina omogenea, volendo anche limite, il premio per originalità di accenti e varietà di toni va assegnato alla soundtrack dell’inclassificabile Kill la Kill (2013), anime parodico e psicotrash, caotico e sporco, assolutamente lisergico, originalissima ed estrema metafora, la cui oscenità è costantemente fagocitata dall’inesausto urlo della sua musica: Blumenkranz, il cui tedesco si sbriciola in una marcia dolce e trasandata da caserma in smantellamento; Kiryuu G@ Kill, inno malato che della gloria della battaglia incastona un retrogusto sinistro; la morbida, esausta ballata I want to know di Benjamin Anderson, nella doppia versione strumentale e vocale.

Kill la Kill Soundtrack e anime
La copertina del secondo numero di Kill la Kill con Ryūko Matoi con indosso Senketsu. Immagine copyright Panini Comics – Planet Manga

Eccessivi e umorali, che adottino la catarifrangenza della pop art o l’elegia bisbigliata, i brani della soundtrack sono così in sintonia con le scene da conferire una dose di straniamento aggiuntivo alla bellezza insolita e perforante dell’anime.

Soundtrack e anime
Soundtrack e anime. Immagine di ryo taka

Ho volutamente evitato di soffermarmi su opening ed ending: si spalancherebbe una selva di riflessioni e citazioni obbligate impossibili da sintetizzare in questa sede.

Se infatti in Adesso e fortuna, celebre hit dell’ormai datato ma evergreen Record of Lodoss War (1990), afferriamo l’essenza della saga fantasy cui assisteremo, e dunque quanto struggimento possa celarsi in una semplice sigla originale (e il refrain Io sono prigioniera è cantato in italiano anche nella versione nipponica), l’apertura di Elfen Lied (2004), grondando della spiritualità off topic di un coro in origine a cappella, ci tramortisce per ossimorica divergenza rispetto alla natura violentissima dell’anime. Dimostrazione ulteriore, se ancora ce ne fosse bisogno, di come la musica, per affinità o antitesi, sia indispensabile strumento espressivo dell’animazione postmoderna, pur conservando una sua invidiabile, splendida autonomia.

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Credo nella potenza dell'arte in tutte le sue forme. Leggo. Cerco. Scrivo. E amo raccontare il Giappone.

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