Un nome che non lascia spazio a fraintendimenti: Holebones è una resa inglese dell’ossobuco, piatto tipico milanese, ma che al contempo sembra riecheggiare l’essenza del blues, un’anima viscerale e per certi versi eterea, a cavallo tra realtà e spirito.
Un nome scelto bene, ma che è davvero solo un attimo, un sorriso prima di restare colpiti dall’impatto sonoro di una band che sulla scena musicale oggi colpisce per l’essenziale. Colpisce per il fatto di aver di fronte musicisti che sanno suonare, e sanno suonare dannatamente bene. E non tanto è un fatto di virtuosismo, quanto di preminenza data alla musica e allo spirito del genere.
Un genere musicale che non è certo nuovo, che nel nostro Paese ha vissuto alterne vicende nel secolo scorso e che è arrivato al grande pubblico soprattutto quando commistionato alla musica leggera.
Loud è il nome del loro album di esordio, ed è un altro nome decisamente scelto bene: nella loudness war del genere blues, gli Holebones si piazzerebbero sicuramente ai piani alti della classifica.
Ringraziamo gli Holebones per aver risposto alle domande di XtraCult. Il loro sito ufficiale lo trovate qui.
Profondamente radicati nella storia di questo genere musicale, il vostro suono è al contempo moderno e tradisce una grande attenzione ai dettagli. Come nasce il suono degli Holebones?
Credo che nasca dalla nostra esperienza lavorativa e artistica.
Ognuno di noi ha una propria indole artistica e attinge a diverse fonti di ispirazione.
Metti tutto in un calderone e quello che esce sono gli Holebones, un insieme di diversità musicali.
Quello che fa da collante appunto è il Blues e la nostra passione per questo genere musicale.
Abbiamo età diverse ed esperienze diverse, credo che il bello di questa Band sia che ognuno di noi mette al servizio degli altri il proprio sapere, oltre allo strumento.
I brani che avete presentato finora tradiscono una genesi anche molto differente. Cosa vi ha ispirato nella realizzazione di questo disco?
Siamo stati ispirati dal trovarci bene insieme a suonare.
L’alchimia tra musicisti non è scontata, mettici un lockdown ed un disperato bisogno di suonare et voilà! Registri “Loud”.
Questo primo lavoro è come il primo mattone di una casa, ora vorremmo approcciare allo stesso modo un prossimo disco di brani originali.
Come ogni Band storica siamo partiti da delle cover, come hanno fatto i Beatles, Rolling Stones ed un altro miliardo di band, per poi farci ispirare a scrivere inediti.
Intanto abbiamo il nostro sound, il resto si vedrà.
Loud ripercorre la storia del blues. Quali tappe storiche avete voluto includere in questo primo album, in particolare?
In realtà non si voleva ripercorrere la storia del Blues, in 8 brani poi è praticamente impossibile. Abbiamo scelto alcuni brani che secondo noi sono delle pietre miliari del genere e gli si è data una veste un po’ più moderna in modo da avvicinare le nuove generazioni a questo genere fondamentale per tutta la musica.
Gli interpreti del Blues erano dei cantastorie, spesso i testi parlano di vita vissuta: ad esempio Mojo Hand parla di un uomo che cerca di stregare la donna che ama con un amuleto. Altri hanno dei contenuti importanti e di spessore come Ain’t gonna let nobody (un vero e proprio inno ai diritti civili) o Black Man di Stevie Wonder che, pur non essendo un blues, abbiamo scelto per il testo antirazzista, un tema ancora purtroppo molto attuale.
“Portare il Blues alla gente a cui il Blues non è ancora arrivato”. Questo è uno dei vostri obiettivi. Cosa significa concretamente?
Il tempo passa e ci sono nuove generazioni che non conoscono la storia del Blues e di altri generi.
Chiedere ad un ventenne di ascoltare John Lee Hooker nel pieno della musica trap/pop sembra quasi una missione, come quella dei Blues Brothers nel salvare l’orfanotrofio in cui sono cresciuti.
Non siamo in missione per conto di Dio ma forse del Blues.
La nostra speranza è che il nostro suono ed identità possa “stuzzicare” persone che hanno meno dimestichezza con questo genere musicale.
Non siamo i soli e ne siamo consapevoli, ma magari nel nostro piccolo riusciremo a fare una piccola differenza.
Il tempo ci dirà se avremo avuto successo, intanto noi ci proviamo con tutto il cuore.
Il Blues ha un fan club insospettabile, ci sono parecchi artisti che promuovono questo genere e ci sono parecchie persone innamorate di questa musica.
Abbiamo suonato come sideman, spesso in locali imballati di persone.
Ora è il nostro turno… Speriamo, incrociamo le dita.
In un genere così tradizionale come il blues, ci sono degli elementi di originalità che rivendicano gli Holebones?
Il sound.
L’unica cosa che è indiscutibilmente nostra.
Fatto non solo di pentatoniche, anzi, ma di pizza, birra, ossobuco e vino rosso, di chitarre graffianti.
Insomma il nostro retaggio culturale che ispirato dal Delta del Mississippi ci porta al nostro Delta dei Navigli!
Tra le primissime cose che avete già fatto, una diretta memorabile dal Nidaba. Cosa avete provato a suonare “dal vivo” in questa situazione che stiamo vivendo?
La nostra prima volta, come tutte le prime volte non la scorderemo mai! [Ridono]
Scherzi a parte, è stato come tornare a respirare.
Vedere Max e Barbara è stato come se ci avessero ridato un pezzo di vita!
Sembravamo un gruppo di ragazzini che non vedono l’ora di suonare davanti agli amici e far vedere cos’hanno preparato.
Siamo sicuri che sia stato l’inizio di qualcosa che dovrà tornare, l’affetto dimostrato da tutti lo abbiamo sentito come se fossero stati nel locale.
Ripeteremo prestissimo!
[La live al Nidaba Theatre è disponibile su Facebook al seguente link: https://fb.watch/5mAhXIOYbj/ ]
C’è qualcosa che in particolare tradisce l’origine milanese della band, in questo esordio?
L’Ossobuco?
Holebones vuol dire letteralmente ossobuco.
Stavamo cercando un nome per la Band, cosa difficilissima se non impossibile.
L’abbiamo cambiato tipo 5 volte, poi trovandoci per due chiacchiere in un bar prima dell’ennesimo lockdown è uscito quasi per scherzo questo nome.
Insomma cosa c’è di più caratteristico dell’Ossobuco e del riso giallo a Milano? Solo la Cottoletta, ma non suonava bene! Il nome non è stato scelto tanto per rivendicare le nostre origini (più o meno milanesi), ma più che altro per “dichiarare” che siamo qui e ora, come la nostra musica.
Gli Holebones sono Heggy Vezzano (chitarra e voce), Andrea Caggiari (basso e voce), Leif Searcy (batteria e voce), Niccolò Polimeno (chitarra e voce). Su Loud è possibile ascoltare le armoniche di Andy J. Forest, l’album è stato registrato da Niccolò Polimeno e Matteo Gilli presso il Nolo Recording Studio, mixato e masterizzato da Antonio “Cooper” Cupertino.